Le tesi del 46° Congresso/Relazione su "Rinnovamento, l’esigenza di partire dal territorio" Perché mai avere paura del federalismo? "Rinnovamento, l’esigenza di partire dal territorio", tesi per il 46° Congresso del Pri di Franco De Angelis Il tema del rinnovamento è, oggi più che mai, al centro del dibattito politico: l’esigenza di adeguare alla realtà dei tempi presenti alcuni elementi del nostro assetto istituzionale viene percepita come sempre più urgente. Dall’alto e dal basso, se così si può dire, partendo dai più attenti politologi per arrivare agli eccessi populisti dell’antipolitica, il messaggio che arriva dalla società civile è chiaro: occorre cambiare, occorre uscire dall’inerzia, occorre rivedere molti meccanismi che ormai sono irrimediabilmente usurati. In parallelo, ma in realtà non casualmente, è emerso con sempre maggior forza il tema del territorio nelle sue varie sfaccettature: la valorizzazione delle specificità locali, la rivendicazione di un livello di autonomia normativa ed economica maggiore, la possibilità di raggiungere livelli di autogoverno più avanzati e le opportunità legate a questo processo. Perché non è un caso che i due temi si siano affacciati in modo concorrente? Da un lato, molto semplicemente, perché il cittadino che a torto o a ragione prova un senso di sfiducia nei confronti della classe politica nazionale tende istintivamente a riconoscersi maggiormente nella realtà che gli è più vicina, che conosce meglio, che gli permette di verificare con maggior cognizione di causa l’operato di chi gestisce la cosa pubblica. Dall’altro, immagino, per ragioni storiche profonde: dal Medio Evo in poi l’Italia è stata il paese delle cento capitali, unita da fortissimi vincoli culturali, ma molto divisa sotto il profilo delle prassi di governo. Personalmente, penso che abbinare le due istanze – rinnovamento e valorizzazione del territorio – abbia molto senso. E non per strizzare l’occhio alla Lega. Federalismo Se esiste un paese che ha nel suo DNA il federalismo, questo è l’Italia. Se ne era reso conto Carlo Cattaneo, fin dai primi passi del Risorgimento, con una lucidità che avrebbe meritato miglior fortuna. Oggi, il fatto che il federalismo sia il pretesto per molte intemperanze, perlopiù strumentali, non deve indurci a buttare il bambino con l’acqua sporca rifugiandoci nella difesa dello status quo. Al contrario, dobbiamo impegnarci – proprio nello spirito del Cattaneo – per trovare il corretto punto di convergenza tra il federalismo e il progresso sociale ed economico del Paese. Il territorio Anzitutto, dovremmo domandarci quale realtà vogliamo prendere in esame parlando di territorio. La risposta è che, naturalmente, ciò che ci interessa analizzare è il significato e il valore politico del territorio, e specialmente le potenzialità che il territorio è in grado di esprimere. E’ chiaro che il territorio rappresenta l’unità politica minima, per così dire: l’aggregazione base attorno alla quale si organizza il sistema politico e amministrativo. Dall’Unità in poi, seguendo una linea di pensiero nata con la Rivoluzione Francese, fortemente accentratrice, il territorio è stato considerato semplicemente l’ultimo anello di una catena che partiva dal centro: Regioni, Province e Comuni erano fondamentalmente cinghie di trasmissione di input provenienti dallo Stato, l’unico vero soggetto politico. L’istituzione delle Regioni nel 1970 non ha fondamentalmente cambiato questo sistema. La mancanza di reali poteri decisionali veniva peraltro generosamente compensata in termini economici. Grazie al meccanismo dei finanziamenti statali, gli enti locali risultavano deresponsabilizzati sia per quanto riguarda il reperimento delle risorse, sia per quanto attiene la spesa. Un comportamento virtuoso ed efficiente era certamente auspicato, ma dopotutto non richiesto in modo così pressante. Il fatto stesso che le violazioni non comportassero alcun tipo di sanzione pratica mi sembra abbastanza indicativo. Peraltro, notiamo che non si tratta di una disfunzione esclusivamente italiana: nella rigorosa Germania le cose andavano (e vanno tuttora) assolutamente nello stesso modo. I debiti dei Länder e dei comuni vengono ripianati se necessario dallo Stato, creando così le premesse per nuovi debiti. Fatalmente, con il tempo gli enti locali si sono configurati come centri di spesa delocalizzati. La riforma del Titolo V della Costituzione promossa dal centrosinistra, pur affermando dei principi di base validi e condivisibili, non ha sostanzialmente cambiato la situazione; anzi, forse possiamo dire che – soprattutto per colpa delle manchevolezze nell’attuazione della normativa – ha introdotto ulteriori elementi di confusione. Enti locali Oggi gli enti locali dispongono di notevoli poteri: pensiamo solo alla sanità, ai trasporti, all’urbanistica, all’housing sociale. La loro azione condiziona fortemente la qualità della vita dei cittadini, e proprio le disparità esistenti nell’efficienza dei servizi erogati sono al centro dei periodici dibattiti sull’Italia a due velocità. Ora resta da fare un ulteriore salto di qualità, indispensabile per fare del territorio un soggetto politico a tutti gli effetti: introdurre il principio della responsabilizzazione nel reperimento delle risorse, oltre che nell’erogazione dei servizi. Ossia, passare alla fase attuativa di ciò che viene sinteticamente definito il federalismo fiscale. E, contemporaneamente, responsabilizzare maggiormente la classe politica locale nei confronti dei cittadini elettori. E’ evidente che si tratta di un percorso lungo e complesso, nel quale occorre tener conto di dati storici spesso pesanti, che va affrontato senza alcun intento discriminatorio o punitivo. Ma a questo punto, si tratta di un passaggio ormai ineludibile: non solo per migliorare la situazione economica e l’efficienza dei servizi locali (è abbastanza chiaro che non ci potrà mai essere un controllo efficace sulle uscite senza controllo sulle entrate), ma soprattutto per fare del territorio un soggetto politico a tutti gli effetti. Riprendendo l’analisi del Cattaneo, da cui siamo partiti, la sfida è riportare la sovranità nelle sedi più vicine al cittadino: perché, per esprimersi con le sue parole, "Il popolo deve tenere in mano la propria libertà". Rinnovamento E veniamo ora alla questione più controversa: in cosa consiste il rinnovamento che, da più parti, si reputa necessario? Il nocciolo della questione è al tempo stesso semplice e terribilmente complesso. Si tratta di rendere il Paese nuovamente competitivo: non certo per il piacere di guadagnare qualche posizione nelle classifiche delle economie mondiali, ma per garantire un’esistenza ragionevolmente migliore ai nostri concittadini. Per ridurre la disoccupazione, il precariato, l’incertezza. Per non obbligare i nostri giovani più dotati a fuggire all’estero. Per consentire alle persone di costruire una famiglia con serenità e di offrire delle opportunità concrete ai propri figli. Per far ripartire un corretto meccanismo di mobilità sociale che permetta di migliorare i livelli di benessere. Per valorizzare le risorse specifiche del nostro Paese con una pianificazione di medio-lungo termine. Per far fronte in modo adeguato ai fenomeni migratori. Non stiamo parlando di problemi astratti, ma di fatti quotidiani che condizionano la qualità di vita degli italiani. E’ sufficiente un’operazione di maquillage istituzionale per porre rimedio all’attuale situazione di stallo? Evidentemente, no. Guardiamoci intorno. Il problema della perdita di competitività non riguarda solo l’Italia, ma investe tutte le economie europee e, sia pure in misura minore, gli Stati Uniti. La recente crisi finanziaria ha aggravato e drammatizzato il processo, beninteso. Tuttavia, le cause sono più profonde e ramificate nel tempo. Quello che è entrato in crisi, e ce ne rendiamo drammaticamente conto ogni giorno di più, è il modello di sviluppo, e soprattutto il modello di welfare state, su cui l’Europa si è basata fino ad oggi. Non è mia intenzione entrare nel merito delle analisi macro-economiche e filosofiche, e non credo sia questa la sede per discutere sui pregi e i difetti di questo modello. Certamente ha assicurato benessere e pace sociale al Continente per mezzo secolo, cosa non da poco. Ma attualmente non è più in grado di rispondere alle esigenze di un mondo che non ha più nulla a che spartire con quello disegnato a Yalta. La ricerca di nuovi equilibri non sarà facile e, dato si tratterà di modificare profondamente lo status quo, richiederà una forte coesione e una profonda unità d’intenti. In altri termini, sarà necessaria una gestione politica molto attenta, capace di traghettare senza strappi il Paese verso una nuova realtà. Punto d’incontro E qui, a mio avviso, tocchiamo il punto d’incontro fra i due temi che stiamo illustrando. Posto che il territorio, per i motivi che abbiamo già visto, sta diventando un soggetto politico a tutti gli effetti, la realtà locale potrebbe (e forse dovrebbe) essere il luogo deputato in prima istanza ad avviare i processi necessari per attuare il rinnovamento. Se è vero che le riforme richiedono scelte condivise, non sarebbe corretto partire dai livelli di governo più vicini ai cittadini? E non sarebbe giusto inserire, all’interno di un quadro generale coerente, elementi di flessibilità che consentano di tener conto delle specificità locali? Con questo passaggio, a mio giudizio, si otterrebbero due risultati fondamentali: da un lato, coinvolgere in modo più profondo e consapevole gli enti locali nelle politiche di rilancio della nazione, legittimandoli come protagonisti attivi e non semplici soggetti passivi; dall’altro, ottenere una maggiore partecipazione dei cittadini, chiamati a concorrere a progetti che interessano in modo più diretto il vissuto locale. Infine, questa sarebbe anche una grande occasione di riqualificazione della classe politica locale, che dovrebbe assumersi in prima persona nuovi compiti e nuove responsabilità. Chiaramente, però, una visione di questo tipo presuppone una piena attuazione del federalismo, specialmente per quanto concerne gli aspetti economici e fiscali: non si può chiedere responsabilità nei programmi di spesa senza attribuire corrispondenti poteri sul fronte delle entrate. I repubblicani e il federalismo Arrivati a questo punto, sorge spontanea una domanda: perché, come repubblicani, dovremmo avere paura del federalismo? Perché mai dovremmo vederlo come uno spauracchio in grado di incrinare l’unità della nazione? Se analizziamo con lucidità gli enormi problemi che sono sul tappeto, senza lasciarci fuorviare dalle intemperanze verbali della Lega (che mi sembrano appartenere più alla dimensione mediatica che a quella politica), mi sembra che, al contrario, il federalismo possa rappresentare una risorsa in più per il Paese. Non solo: ritengo che proprio noi repubblicani, in virtù delle nostre tradizioni liberaldemocratiche e della nostra cultura politica, possiamo svolgere un ruolo importante, contribuendo a focalizzare il dibattito sugli aspetti più seri di questa questione. So che alcuni amici provano una certa insofferenza nei confronti della nostra attuale collocazione e pensano che il Pri dovrebbe assumere una posizione critica nei confronti della maggioranza di centrodestra, fino a sforzarsi di costruire un terzo polo alternativo ai due schieramenti esistenti. La mia personale posizione, come penso ormai tutti sappiano, è assolutamente opposta: ho sostenuto a suo tempo un ruolo più organico del Pri nel contesto del Pdl, e sono tuttora dell’opinione che una nostra partecipazione più forte al polo di centro destra sarebbe auspicabile. Credo che ormai il bipolarismo costituisca un dato di fatto del panorama politico italiano (come del resto lo è in altre democrazie) e, lasciando da parte ogni giudizio di merito astratto, non ritengo realistico che si possa tornare indietro. E’ una realtà a cui dobbiamo adattarci, anche se non fa parte delle nostre tradizioni più consolidate. Proprio perché sono contrario a un berlusconismo acritico – e sarebbe difficile non esserlo – credo che la componente repubblicana dovrebbe e potrebbe assumere il ruolo di coscienza critica del centrodestra ponendosi come punto di raccordo di tutti coloro che, all’interno del Pdl, si muovono nel solco degli ideali liberaldemocratici. Le riflessioni fatte finora in tema di federalismo mi confortano ulteriormente e mi convincono sempre di più del fatto che la nostra collocazione naturale, in questo momento, è all’interno della coalizione di centrodestra. Sfrondando il campo da tutte le esagerazioni verbali della Lega (che, lo ripeto ancora una volta, inviterei a considerare alla stregua di provocazioni lanciate per mantenere alta la pressione sui media), penso che i governi di centrodestra abbiano affermato con forza alcuni punti su cui noi repubblicani non possiamo che essere d’accordo. Anzitutto, è sempre stata riaffermata con molta chiarezza l’appartenenza dell’Italia allo schieramento occidentale e atlantico. I rapporti amichevoli con la Russia di Putin o la Libia di Gheddafi non hanno mai gettato alcuna ombra di ambiguità sui fondamenti della nostra politica estera. Non a caso, presidenti di segno opposto come Bush e Obama hanno sempre considerato l’Italia come un alleato su cui si può contare. Questa chiarezza di fondo, e l’impegno dimostrato nelle sedi internazionali, hanno permesso di rafforzare il peso e il prestigio dell’Italia sia nei confronti dei partner europei, sia all’interno del Mediterraneo, sia nell’Alleanza Atlantica. L’Italia, quindi, oggi si presenta sulla scena mondiale con un’identità più forte e più definita rispetto al passato. Questo merito, che oggettivamente va riconosciuto al centrodestra, rende più credibili i passi che si stanno facendo in direzione del federalismo, e al tempo stesso dovrebbe rassicurare quanti temono uno sfaldamento dell’identità nazionale: un timore, a mio parere, totalmente ingiustificato. Conclusione Concludo riassumendo i punti che a mio avviso dovrebbero essere oggetto di discussione. -E’ indubbio che ci troviamo di fronte ad una crisi strutturale del modello socio-economico che finora ci ha guidato. -Questa crisi richiede risposte globali, che per risultare efficaci dovranno essere gestite attentamente in termini politici. -In questo quadro, il federalismo può rappresentare una grande risorsa per il nostro Paese, sia perché consente di mobilitare energie nuove, sia perché permette di introdurre elementi di flessibilità e aggiustamenti che possono facilitare la transizione. -Oggi come oggi, l’unica coalizione in grado di perseguire coerentemente un disegno federalista è il centrodestra. -Ritengo quindi che, anche per questo motivo, sia opportuno che i repubblicani, forti della cultura politica che li distingue, si impegnino in modo più organico all’interno dell’alleanza, con l’obiettivo di diventare il punto di riferimento di tutte le forze liberaldemocratiche. |