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Liberaldemocrazia, Francesco Nucara ricorda Ugo La Malfa/L’impegno che il Pri è chiamato a svolgere

Senza l’Europa avremo il deserto

I Repubblicani ormai da anni si battono per la realizzazione di un progetto liberaldemocratico che, oltre a se stessi, veda coinvolte altre forze politiche e sociali e riesca a calamitare verso di sé anche segmenti delle società che non trovano riferimenti nell’attuale panorama politico.

La confusione è tanta che è difficile distinguere chi siano i liberali in senso classico, chi in senso moderno e chi invece aspiri ad una società governata dal socialismo reale.

Distinguere dunque i liberali "veri" da quelli "falsi", come recitava il nostro Convegno di Milano dell’ottobre 2007, è più che opportuno.

Noi siamo in una condizione di oggettiva difficoltà, ma dalla nostra parte abbiamo la costanza e la perseveranza per poter portare avanti le idee di cui ci sentiamo portatori e che vogliamo condividere con altri; e, se necessario, modificarle, levigarle, aggiustarle e fare di esse un progetto condiviso.

Il cammino è lungo e difficile, ma è importante che di ciò si abbia coscienza. Abbiamo la convinzione di poter contribuire al miglioramento del nostro Paese e della futura società. Abbiamo la pretesa di dare forza a un progetto che potrà servire al futuro delle generazioni a venire. Chi pensa di voler anticipare tempi e di avere idee da spargere come verbo della verità assoluta non è repubblicano, né liberale, né democratico.

Avere ragione non serve a nulla se non c’è chi te la dia. In politica la ragione ti viene data dal consenso che riesci ad ottenere e dalla stima che ti viene concessa.

Per avere il consenso siamo coscienti che in quest’Italia, frazionata tra chi usa internet e chi ancora oggi è semianalfabeta, dobbiamo lavorare molto e trovare forme di comunicazione diversificate.

Abbiamo la pretesa di educare il popolo, non di ammansirlo.

Il mondo laico cui apparteniamo non può comportarsi diversamente. Certo che, nell’attuale panorama politico, tra poco, per offendere una persona, le si dà del laico, come nella storia d’Italia si dava del fascista prima o del comunista, più recentemente.

Fascisti e comunisti non esistono più, anzi non sono mai esistiti come secondo qualcuno non è mai esistita la Shoah.

Non vogliamo rivangare il passato per dire che abbiamo avuto ragione. Non servirebbe a niente, come a niente è servito a Giorgio Amendola sostenere che noi, forze laiche e moderate, eravamo i vinti della storia e loro, i comunisti, i vincitori. Il tempo ha completamente ribaltato il suo pensiero.

Né socialisti eredi del marxismo, quindi, né liberali eredi di Bentham e Mill. Posizioni ideologiche che proprio perché ideologiche, al di là del merito, i laici non possono accettare.

Mi viene in aiuto Peppino Galasso, il cui pensiero cito ancora una volta derivandolo dal "Corriere della Sera" del 30 agosto 2009. Galasso, riferendosi alla sua esperienza nel PD, sosteneva: "Capisco che un terzo incomodo dà sempre fastidio. Ma nel segno della politica (Bersani lo saprà) gli incomodi possono essere essenziali, imprescindibili, preziosi. La tradizione laica, moderna, occidentalista della democrazia italiana lo è. Logorarla è peggio che regalarla agli altri (se essa potesse mai essere oggetto di regali)".

Per l’appunto non siamo stati oggetto di regali e non lo sarà nemmeno la nuova formazione che stiamo mettendo in cantiere.

Secondo Amartya Sen e anche secondo Isaiah Berlin, ci sono due tipi di libertà: la libertà positiva e la libertà negativa. Naturalmente su questi assunti si è sviluppato un nutrito dibattito tra intellettuali, politologi, filosofi, etc.

Non appartenendo a nessuna delle categorie indicate, possiamo tradurre semplicemente che la libertà positiva va interpretata come "la libertà di" e la libertà negativa come "la libertà da". Naturalmente sono sfaccettature del concetto di libertà che prese singolarmente potrebbero influire sulla libertà dell’individuo.

Compito di un progetto liberaldemocratico è quello di portare le due libertà (positiva e negativa) e di tradurle in un impegno sociale della libertà individuale.

La qualità della libertà è il primo obiettivo che i liberaldemocratici si devono porre per vincere le molte sfide che la società contemporanea dovrà ancora affrontare. Noi liberaldemocratici riteniamo che l’incontro tra pensiero democratico e pensiero liberale debba essere inquadrato non sul terreno puramente ideale, ma sulla affermazione del progetto che insieme intendiamo realizzare nella società contemporanea. Ciò significa che occorrerà analizzare il futuro politico in riferimento a ciò che distingue la liberaldemocrazia da altri sistemi politici. Partendo da una riflessione: se la democrazia che nasce tra gli ideali democratici e liberali non riuscirà a mantenere in vita gli ideali su cui è germogliata e subirà condizionamenti e/o adattamenti, darà vita ad un sistema che solo apparentemente potrà essere definito democratico. In sostanza il pensiero liberaldemocratico verrebbe meno ai principi fondamentali.

Cerchiamo di attualizzare i principi che abbiamo esposto sulla base dei cambiamenti avvenuti nella società e degli ipotizzabili cambiamenti futuri.

La globalizzazione ha provocato due conseguenze che mettono in discussione la stessa capacità democratica:

1) la prima conseguenza è che la Nazione, agendo su uno scacchiere globale, non è stata adeguatamente supportata dalla visione politica dei partiti agenti all’interno della società, non avendo questi ultimi saputo offrire ai cittadini serie soluzioni alternative ai cittadini all’aggressione dei mercati finanziari.

2) la seconda è data dal restringimento dei poteri di decisione dello Stato, necessitato ad una più ampia alleanza sovranazionale, non potendo da solo arginare le difficoltà derivanti dal mercato globale, peraltro aggravate dalla vetustà del proprio sistema produttivo interno e dalla mancata riqualificazione del proprio apparato politico amministrativo.

Le due concause hanno provocato il restringimento dei poteri del cittadino che ha visto annullare il primo diritto democratico: quello di poter scegliere liberamente la propria rappresentanza, da cui è disceso che:

1) i partiti, non sapendo rinnovare l’offerta progettuale e una qualità superiore dei rappresentanti, si sono rinchiusi al proprio interno sottraendo con leggi elettorali antidemocratiche il diritto di scelta e di partecipazione, che in democrazia spetta solo ai cittadini quale diritto inalienabile.

2) la messa in evidenza della fragilità dello Stato di fronte alle sollecitazioni globali, fragilità che trova nella inadeguatezza costituzionale il proprio limite. E’ indubbio, infatti, che i nuovi processi di globalizzazione e di internazionalizzazione della politica pongano la necessità di individuare un diverso ruolo del Parlamento e del Governo, rendendo entrambi maggiormente efficienti sul piano della proposta e maggiormente agili sul piano delle decisioni da assumere.

Proprio sul piano delle decisioni, alla luce dell’attuale dettato costituzionale, è stato fortemente limitato il diritto del cittadino, trovando una soluzione che, di fatto, indebolisce la Costituzione esistente e ne evidenzia la necessità di una sua diversa formulazione.

L’attuale Governo italiano, sotto la spinta emergenziale, rappresenta il prodotto di una élite politica, la cui legittimità non affonda più le radici nella società civile ed evidenzia la debolezza dell’attuale sistema democratico.

Il cittadino, non coinvolto sulle scelte da compiere, è divenuto oggetto passivo, costretto a pagare un elevato prezzo sul piano sociale, economico e occupazionale, scontando gli errori politico/programmatici del passato nonché le commistioni, le corruzioni e la volontà di non salvaguardare i valori inalienabili che informano il sistema liberaldemocratico.

L’agonia dei partiti politici rischia di contagiare la residuale agibilità democratica dell’attuale sistema costituzionale.

I partiti dovranno essere legalmente riconosciuti, superando la fase dei riconoscimenti di fatto, e rispettare nei loro statuti il sistema aperto alla liberaldemocrazia. Solo i partiti che (sull’esempio dell’attuale art.49 della vigente Costituzione) abbiano scelto la strada della legittimazione derivante da una apposita legge, con i doveri che ne deriveranno, potranno concorrere alla vita parlamentare, regionale e comunale.

La società nazionale, di fatto, si è trovata a vivere all’interno di un caleidoscopio che sempre più velocemente ha cambiato composizione attraverso nuove e più originali forme aggregative. Nuovi stili di vita, frutto di culture diverse, hanno contaminato, non sempre arricchendolo, il contesto sociale di riferimento.

E’ in atto una grande rivoluzione sociale, non determinata da sollecitazioni ideologiche ma dalla sconfitta di queste e favorita dallo sviluppo economico, seppur disomogeneo, a livello globale. E’ una rivoluzione che interessa le fasce intermedie delle società nazionali: in alcuni casi, là dove già queste esistono, la rivoluzione consiste nel tentativo di costruire un progetto finalizzato al proprio sviluppo, senza alterare la conservazione di ciò che è stato acquisito. Nelle giovani società, asiatiche, africane o arabe, in cui il fenomeno della crescita del ceto medio è recente, la rivoluzione consiste, grazie all’aumento dei nuovi arrivi in questa fascia sociale, nel contrattare un maggiore potere politico e di governo. Nelle società occidentali, strutturate, il ceto medio già rappresenta una forza economica importante e partecipa alle scelte del proprio Paese, anche se spesso la partecipazione è delegata e frantumata in una pluralità di soggetti rappresentativi o in formazioni associative. In queste società esiste ancora, però, un condizionamento ideologico che non omogeneizza il ceto medio, alla ricerca, comunque, di una sicurezza che potrebbe, qualora garantita, divenire elemento catalizzatore. Nelle società giovani, presso le quali lo sviluppo economico ha consentito l’affermazione di piccoli imprenditori, di piccoli commercianti o di un numero sempre maggiore di laureati e diplomati che hanno sostituito l’iniziale forza-lavoro di stampo coloniale, l’affermazione poggia su un derivato economico di grande impatto psicologico: il desiderio di consumo. Da questo punto di vista non vi è differenza qualitativa con l’Occidente, ma solo quantitativa.

Con la flessione della classe operaia e agricola, nel ceto medio parcheggia o transita la maggioranza della popolazione attiva. L’attuale ceto medio globalizzato non è portatore di un progetto ideale, ma solo di un sistema garantista relativo al proprio acquisito ruolo economico. Non è un agglomerato omogeneo, è un insieme nebuloso, diversamente dalla metà del secolo scorso, quando la precarietà ne caratterizzava gran parte. Non potendo, nella realtà attuale, contrapporlo a qualsivoglia lettura classica sulla suddivisione della società, il ceto medio attuale si scompone e ricompone in diverse organizzazioni di matrice sociale, sempre meno caratterizzate dal collateralismo politico. Non è portatore di valori di uguaglianza, quando questa può mettere in gioco il ruolo acquisito. E’ portatore di un profondo desiderio di libertà, credendo che nell’esercizio di questa sia possibile raggiungere gli obiettivi prefissati. Spesso si spinge sino ad un individualismo a-sociale. La vita dei ceti medi è caratterizzata da una forte fluidità, con repentini mutamenti sulle aggregazioni sociali, politiche e sindacali e tali mutamenti sono esasperati dalla crisi ideologico-politica determinatasi. Il che significa che per questa parte della società, oggi maggioranza, libertà e uguaglianza non sono sempre uguali, ma mutano con la stessa fluidità che caratterizza le fluttuazioni della massa. Ciononostante, questa massa di soggetti è diversa dalla massa che ideologicamente si è andata formando nel secolo passato. La disponibilità a ragionare sulla libertà dell’insieme, quanto soprattutto del singolo, predispone ad una comunicazione più diretta in termini di trasformazione dei meccanismi regolatori della società.

Attraverso questo processo si è aperto un varco per ragionare sulla centralità del singolo, del cittadino, dell’uomo. Varco per decenni precluso da una visione d’insieme che ne penalizzava fortemente la vita. L’attuale richiesta, non solo politica, è quella di essere garantiti sul piano individuale, sia per quanto riguarda il mondo del lavoro che per quanto riguarda il binomio sicurezza/felicità. In questa visione lo Stato perde la sua centralità di gestore, per costruirsi una funzione più rispondente di regolatore delle istanze sociali. Uno Stato non più assolutista, ma partecipativo e propositivo, in grado di raccogliere le istanze popolari riformandole in un rinnovato meccanismo di equilibrio sociale.

Una società globalizzata deve saper riformare la propria struttura sapendo cogliere in anticipo gli effetti delle profonde trasformazioni in atto che moltiplicano i bisogni economici e le richieste dei singoli cittadini.

La globalizzazione è un processo economico positivo se, accanto a forme di liberismo, umanamente spesso intollerante, la politica riprende un ruolo guida anche in ambito internazionale, iniziando da una parte a riordinare gli organismi internazionali preposti alla salvaguardia della pace e dello sviluppo, e dall'altra, rimodulando il ruolo dello Stato all'interno di ciascuna società civile.

La globalizzazione ha ampliato le opportunità delle società economicamente strutturate, ma ha indebolito ulteriormente le società meno solide sul piano industriale e allontanato dallo sviluppo le società arretrate. Tali squilibri rappresentano un pericolo oggettivo per il prossimo futuro, anche per le società oggi più forti, nelle quali si cerca di destrutturare la presenza dello Stato tentando di introdurre spazi residuali sul piano istituzionale. Uno Stato debole non potrà mai essere garante di uno sviluppo accelerato, senza penalizzare le fasce deboli, che inevitabilmente verranno a sovrapporsi per fascia di reddito a quelle già esistenti senza reddito, così come uno Stato burocratico, amministrativamente inefficiente e incapace di auto-rigenerarsi, non potrà più garantire lo sviluppo salvaguardando le fasce deboli della popolazione. Nessuna società occidentale potrà mai crescere nella globalizzazione senza offrire risposte adeguate a tutte le aspettative o trascurando settori fondamentali per lo sviluppo economico o, ancor peggio, lasciando quest'ultimo ad un libero mercato, quale unico regolatore all’interno di realtà culturalmente inadeguate a confrontarsi con poteri assai più complessi di quanto non fossero solo 15 anni orsono.

Quando si parla di società complesse, ci si deve rendere conto che non si è davanti ad un potere, ma a diversi poteri o centri di interesse e che non tutti concorrono verso un’unica soluzione, e molti di questi risentono ancora di incrostazioni culturali, per non dire ideologiche, che mettono in discussione, per visioni opposte, la necessità di affermare o allargare il potere della rappresentanza e della rappresentatività.

Scienza e tecnologia hanno già innescato cambiamenti sociali non paragonabili ad altre epoche della storia dell'uomo. Gli strumenti di comunicazione sono parte integrante della vita dell'uomo e devono essere applicati ai fini che una forza politica democratica intende realizzare. Il dibattito tra l'utilizzo dei mezzi scientifici e tecnologici e l'educazione permanente dell'uomo in un sistema democratico non sono secondari al mantenimento della pace e della crescita democratica delle società.

Scienza e tecnologia hanno un alto impatto sulla nostra esistenza, in particolare quelli compiuti nel campo della scienza della vita.

Pongono una serie di preoccupazioni alle quali ancora non sembriamo attrezzati nel dare risposte adeguate, soprattutto in campo politico, portandole a sintesi del comune sentire. La linea di demarcazione è rappresentata da ciò che consideriamo naturale e ciò che può essere modificato dall'uomo.

Non da oggi l'uomo ha iniziato ad alterare la natura, ma oggi la scienza e la tecnologia gli offrono la possibilità di modificarne il corso generando nuove soluzioni, ancora non supportate da una elaborazione cosciente sulle implicazioni dello sviluppo dell'Umanità.

Compito della politica è di riappropriarsi di una posizione intermedia ed equilibrata, in base alla quale stabilire ciò che è modificabile da ciò che non lo è. Da ciò discende, nella vita sociale propriamente intesa, l'affermazione di quei nuovi diritti che oggi appaiono ancora ai margini dell'Umanità.

Le manovre finanziarie ed economiche degli ultimi anni sono state in parte sollecitate e in parte necessitate dalla richiesta e dall’azione delle organizzazioni finanziarie e bancarie internazionali; manovre veicolate attraverso organizzazioni statuali di diversa ispirazione. In sostanza, è stata data una risposta non governata alla crescita dell’economia globale, la quale, essendo senza confini e non ponendosi il problema del benessere collettivo, ha determinato l’indebolimento dei sistemi istituzionali in diversi Paesi. Questi ultimi, avendo operato principalmente per la stabilità dei mercati attraverso il contenimento dell’inflazione e una più coordinata politica monetaria e finanziaria, non hanno preso in considerazione l’effetto che tali manovre avrebbero avuto sulla stabilità sociale. Ancora una volta è stato il cittadino (attore passivo) al servizio dell’economia e non l’economia (attore attivo) al servizio della collettività. Alla luce di questa esperienza occorre muoversi su diversi piani, per rispettare la road map liberaldemocratica ispiratrice di una diversa e migliore società.

Alla base del progetto liberaldemocratico devono consolidarsi due fondamentali pilastri che non dovranno più essere rimossi per dare solidità alla vita politica e sociale: 1) la responsabilità; 2) il comportamento. Partendo da ciò sarà possibile riconfigurare il giusto equilibrio tra: 1) uguaglianza 2) equità e 3) partecipazione allo sviluppo.

Comprendere sino in fondo la necessità di riappropriarsi di alcuni capisaldi della democrazia liberale significa offrire quelle opportunità richieste e che nella fase attuale risultano di difficile realizzazione, per l’avvenuto cortocircuito tra i valori, regolatori della convivenza civile, e l’individualismo materiale di derivazione economica. Chiunque agisca nella società o per conto di questa non potrà non attenersi a delle regole comportamentali che ne evidenzino la responsabilità per il buon governo della società. Pertanto, mediare con queste interferenze che condizionano la realizzazione della futura società su basi solidaristiche e di benessere diffuso, richiede la fermezza nell’osservanza delle disposizioni legislative e l’adeguamento di quelle esistenti sia a livello nazionale che internazionale.

Non può essere la sola economia globale deregolata ad essere delegata a plasmare il futuro dell’umanità, ma questa, attraverso una nuova visione sulla convivenza civile, posta su un piano di parità con le esigenze dell’economia, deve saper rispettare le direttive dell’attività regolamentata dagli organismi internazionali riformati e preposti a tale funzione, con i quali tutti devono sentirsi obbligati a coordinarsi.

Si è di fronte a scelte determinanti, soprattutto quando si avverte la necessità di liberare le società da vetuste architravi che ne impediscono lo sviluppo. Le parole d’ordine alle quali è necessario rispondere appaiono assai pericolose se non coltivate nell’ ambito culturale liberaldemocratico, che sostanzia il comportamento dei singoli e degli Stati.

Liberalizzazioni, privatizzazioni e competitività non rappresentano tre nemici da contenere, ma tali possono diventare se finalizzati unicamente al profitto e non al benessere collettivo, che deve rappresentare il binario su cui poter far correre senza deragliare l’economia e lo sviluppo delle imprese.

La competitività è un terreno da arare con buone sementi e non un far west, ed è proprio su questo terreno che si devono confrontare e definire sul piano globale le regole da rispettare; quelle regole che, in nome di una libertà economica, non penalizzino l’equilibrio della società allargando le maglie ai pochi fortunati, facendo ricadere sulla massa, come accaduto nella recente crisi, scelte che ne impoveriscono l’esistenza.

Fino ad oggi si è parlato della responsabilità sociale sia degli imprenditori che dei lavoratori. Intendendo con tali espressioni una diretta partecipazione delle strutture private (aziende/associazioni) nel contribuire a sostenere attività a carattere solidaristico e culturale. Le associazioni sindacali, soprattutto a cavallo del secolo, hanno avuto strutture circolari di tutela e di sostegno ai propri affiliati, assumendosi "responsabilità sociali" solidaristiche anche se limitate. Se per decenni il dibattito si è sviluppato intorno a questo tema, oggi lo stesso appare superato dalla globalizzazione affidando sia all’impresa che alle associazioni sindacali responsabilità ben maggiori rispetto a quanto definito giuridicamente sulla responsabilità verso gli azionisti e gli associati.

La limitazione della libertà di impresa non viene esercitata sul profitto o su vincoli di mercato che lo Stato oggi non può imporre, se non quelli derivanti dalla struttura sovranazionale, ma la limitazione della libertà deriva dalla libera scelta di divenire l’impresa stessa un soggetto sociale necessitato di assistenza e di sostegno. Sarà in divenire un soggetto sociale reale e non teorico da parte dell’impresa che ne trasformerà i doveri: da impegno garantistico dell’occupazione ad impegno solidaristico a tutela degli interessi collettivi superiori.

Il profitto costituirà il premio all’intelligenza del management o all’imprenditore, i quali non potranno più sottrarsi al dovere di volgere il loro sguardo verso l’orizzonte più limitato, che è la società in cui vivono.

Una cosa, comunque, dovrà essere nuovamente prevista: il sistema bancario, pur nel rispetto delle regole internazionali, non potrà più articolarsi come l’attuale. Se una cosa è venuta meno al sostegno delle imprese, questa è proprio la specificità di segmenti bancari in grado di dialogare con l’impresa stessa. Il sistema bancario, trasformato nel suo complesso in sistema d’affari, ha ridotto gli spazi di quel sistema che un tempo veniva definito commerciale, dedicato principalmente alle imprese. Anche nel sistema bancario il monolitismo nuoce allo sviluppo complessivo della società e una diversa articolazione rapportabile ai due livelli (sviluppo globale e sviluppo nazionale) diviene essenziale.

Per anni si è discusso su quale fosse il primato dell’economia sul sociale, o viceversa. Vi sono state tante interpretazioni, molte delle quali facenti riferimento all’etica, e tra le tante quella che riteneva che la produttività e l’efficienza fossero subordinate a valutazioni etiche per il raggiungimento dei più nobili fini sociali, ma, pur riconoscendo la funzione del profitto, esso non è l’unico regolatore della vita dell’impresa: insieme ad esso, infatti, occorre considerare i fattori morali ed umani che, nel lungo andare, sono ugualmente essenziali per il perdurare dell’impresa stessa.

L’imprenditore, in sostanza, è sollecitato a svolgere un ruolo complesso nel quadro di una alleanza partecipativa per la realizzazione delle finalità sociali. In questo quadro l’alleato è lo Stato e i lavoratori diventano dei partners.

Da questa visione parte la riflessione sul diverso ruolo che dovrà assumere il movimento sindacale: non solo difensore flessibile dell’occupazione, ma soggetto attivo per l’occupazione.

Il sindacato odierno vive le medesime contraddizioni dei partiti politici, con una profonda differenza: il sindacato è divenuto un partner finanziario di rilevante interesse, senza essere riuscito ad acquisire una moderna mentalità in grado di renderlo partecipe in scelte che non collimano con un rivendicazionismo salariale di cui ancora intende servirsi.

La partecipazione dei lavoratori all’impresa pone il sindacato su un versante attivo nella politica globale sia a difesa che a stimolo dei cambiamenti necessari avendo anch’esso come controparte la società civile (associazioni, ecc.), che svolge un ruolo di importanza democratica rilevante e che spesso si trova in aperto conflitto con lo stesso movimento sindacale, atrofizzato su posizioni ideologico-massimaliste.

La crisi italiana è culturale e di rappresentatività della classe politica. Da qui è necessario partire, perché da qui nasce la grave crisi istituzionale che attraversa il Paese: la mancanza di regole certe consente a chiunque di esternare proprie posizioni rivestendo ruoli che impedirebbero, in una democrazia reale, tali comportamenti senza far seguire nell'immediato le proprie dimissioni. Comportamenti nocivi all'immagine del Paese demotivano il cittadino e non favoriscono il sorgere di una stagione democratica di cui l'Italia sente il bisogno.

I partiti sono le forze vitali della democrazia, al pari delle altre forme aggregative della società, ma diversamente da queste rappresentano la specificità della democrazia stessa e per questo devono, con maggiore rigore, essere governati attraverso la piena accettazione dei valori costituzionali, al fine di promuovere coerentemente lo sviluppo e il progresso della società presente e futura: un governo coerente ai principi fondanti in un quadro di rispetto dei cittadini nel loro insieme e nella loro diversità.

I cittadini, nel nuovo sistema democratico, da semplici elettori divengono portatori di interessi compositi raggruppati all’interno di grandi o piccoli partiti che possiamo definire di massa.

I partiti, essendo divenuti struttura portante dello Stato democratico nel dibattito che parte dalla Costituente, dovrebbero entrare a far parte dell’organizzazione dello Stato, tesi che troverebbe un più deciso riscontro in quanti sostengono che il finanziamento pubblico degli stessi (sotto le diverse forme) indicherebbe tale strada da seguire, il che sposterebbe i partiti politici, nell’attuale formulazione costituzionale, dalla prima alla seconda parte, con tutte le conseguenze del caso.

I partiti politici rappresentano gli interessi dei cittadini, così come questi sono liberi di creare, riformare o trasformare nuove e vecchie aggregazioni politiche. Il partito in democrazia è la sede principale delle proposte da avanzare nonché sede principale in cui è possibile definire posizioni concorrenti da trasmettere al Parlamento il quale, nella sua ritrovata autonomia, dovrà essere libero di accoglierle, modificarle o rigettarle.

La passata esperienza politica, almeno sino a quando non si è arrivati alla degenerazione dell’uso dello ‘strumento partito’, si basava sul principio in base al quale la legge veniva intesa quale mediazione dei contrapposti interessi e non quale decisione prevaricatrice di una parte sull’altra. Certamente vi è stato un abuso tra costituzione formale e costituzione materiale e tale abuso ha sganciato lo stato di diritto dal compito a questo attribuito, spesso avvilendolo, a vantaggio di una interpretazione formale che non di rado ha contraddetto lo stesso stato di diritto e i principi ‘rigidi’ su cui è basata la prima parte della carta Costituzionale.

Nel formulare il progetto liberaldemocratico occorre ritornare alle premesse in cui l’insindacabilità dei principi veniva accompagnata da una fase consensuale rispondente alle esigenze della collettività.

Il consenso veniva costruito attraverso il dialogo tra le diverse anime della società, rappresentate dai partiti, e a questi riferentisi le diverse organizzazioni sociali. Il venir meno delle ideologie classiche e la degenerazione dei partiti hanno provocato la rottura tra questi e la società civile, che intende avanzare le proprie richieste senza l’ausilio dei partiti politici.

Per ricreare le condizioni per una soluzione equilibrata dello Stato è urgente ridefinire sia il ruolo dei partiti che i nuovi ambiti di proposta provenienti dalla società e ciò non potrà essere realizzato senza l’attuazione di imprescindibili premesse:

1) L’attuazione di una legge che regola la vita dei partiti e delle associazioni in sede di proposta politica e di vita democratica all’interno degli stessi;

2) L’introduzione di una legge elettorale flessibile (che tende a premiare tutte le rappresentanze sociali costituite in partito politico, con l’unica avvertenza di un giusto sbarramento per l’accesso parlamentare);

3) Una ritrovata autonomia del Parlamento (rispetto ai partiti o alle associazioni per garantire, in sede di equilibrato compromesso, una autonoma posizione rispondente ai principi invalicabili della Costituzione materiale).

La riforma della vita politica attraverso una nuova vita dei partiti non può, però, prescindere da un diverso impianto costituzionale, che renda lo Stato snello nelle sue forme decisionali e attui una maggiore e diversa autonomia territoriale.

L’esperienza delle diverse riforme dal Titolo V, nonché le diverse proposte sulla formazione del Parlamento e del Governo, non devono farci illudere che si sia imboccata la strada più saggia. Al contrario tale strada definitivamente stralcia l’attuale Costituzione la quale, non avendo se non pochi e scarni articoli di riferimento, rischia di non venire rispettata in quelli che sono i cardini della democrazia liberale: i principi inviolabili.

La Regione deve divenire il promotore della democrazia e dello sviluppo economico, un ente in grado di dialogare con le sovrastrutture europee e in cui i cittadini ritrovino il potere di interdizione di una classe politica che sino ad oggi si è dimostrata ‘inutile’ al pari di gran parte di quella nazionale.

Eliminare le Province deve rappresentare per i liberaldemocratici l’occasione per affermare i principi di autonomia, responsabilità, sviluppo economico e rappresentatività.

L'Unità della Nazione è uno dei valori e contro i suoi detrattori va necessariamente opposta tutta la forza. Ma opporsi, oggi, non è più sufficiente. Va preso atto che la costruzione centralizzata dello Stato, rigida e per questo distante dalle necessità dei cittadini, ha fatto scoppiare le contraddizioni. Se la centralizzazione politico-amministrativa dello Stato ha, in diversi momenti storici, garantito lo sviluppo complessivo del benessere sociale, al contempo ha dato corpo a fenomeni di ampia corruzione e a mancanza di sensibilità verso il cittadino che, a causa delle concezioni del passato, è sempre stato considerato appartenente ad una massa e non ricchezza specifica dell'insieme.

La discutibile articolazione territoriale che si è andata delineando nei decenni passati richiede oggi un cambiamento, una diversa struttura amministrativa che sappia adeguatamente dialogare con le istituzioni internazionali di cui l'Italia fa parte, per meglio sviluppare le potenzialità culturali/ economiche/scientifiche e dare voce alle istanze di una comunità che, sotto molti aspetti, è assai più moderna e autonoma.

L'idea dello Stato non è un'idea astratta: lo Stato rappresenta lo strumento per l'attuazione di quei valori di cui siamo eredi e la disponibilità a discutere le diverse forme organizzative dello Stato stesso, senza escludere il federalismo politico, deve trovare nei liberaldemocratici l'argine alle derive populiste e demagogiche che danneggiano l'intera collettività nazionale. I valori cui fare riferimento, laici e democratici, sono insiti nell'attuale Carta costituzionale e, a qualunque cambiamento si tenda, non potranno esserne accettate modifiche, se non in chiave di rafforzamento e adeguamento.

Se nel passato l’idea liberaldemocratica trovava una propria centralità nelle classi sociali più sensibili allo sviluppo dell’economia in armonia con il credo democratico di allora, oggi il venir meno di un ben individuato nucleo sociale in grado di interpretare innovativamente la filosofia liberaldemocratica mette in grave pericolo l’equilibrio stesso tra economia e democrazia, favorendo l’indebita appropriazione dell’economia da parte di gruppi politicamente disinteressati all’armonica convivenza civile.

Un federalismo ‘sordo’ sin dalle sue formulazioni di principio, si traduce in un federalismo cieco; per dirla in termini giuridici: in un ‘antifederalismo’. Tale situazione rischia di venirsi a creare in seguito ad una serie di importanti giustificazioni storiche e sociali, che fungono, per il federalismo di matrice settentrionalista, da ‘specchietto per le allodole’: la versione italiana del liberalismo, quella cui non si può fare riferimento se non come presupposto del ragionamento, si è tradotta, anche per evidenti esigenze storiche di carattere pragmatico, non in una metodologia consequenziale di modernizzazione e di sviluppo del Paese, bensì in un centralismo di stampo burocratico che ha imposto un modello organizzativo del nostro ordinamento nazionale eccessivamente rigido, raggiungendo il paradosso, nella Repubblica sorta sulle ceneri del fascismo, di favorire la proliferazione di enti statuali, nazionali e territoriali, che hanno reso il vecchio centralismo statalista liberale e, poi, fascista, policentrico, corporativo, persino elitistico in numerosi casi. In buona sostanza il liberalismo, nel tentativo estremo compromissorio, ha finito per negare se stesso.

Ma modernizzare l’Italia in senso federalista significa anche notare come il processo capitalistico avvenuto storicamente in Germania o negli Stati Uniti, abbia prodotto forme di mercato concorrenziali autentiche, improntate sulla capacità del singolo imprenditore di innovare e di differenziare il proprio prodotto rendendolo più accessibile a tutti. In Italia, viceversa, si sono spesso realizzate forme di concentrazione statalistica e capitalistica, che hanno portato il Paese a percorrere un cammino praticamente a ritroso, rispetto a quello indicato dall’autentica ricetta liberaldemocratica. Ed è questo processo inverso che, in realtà, ha prodotto un capitalismo ‘di relazioni’, poco produttivo, fortemente assistito dallo Stato e, dunque, corrotto.

Occorre individuare una forma organizzativa di stampo federale, non estremistica o anarchica, che rischierebbe di smembrare lo Stato nazionale, di decomporlo, soprattutto per motivazioni storico-geografiche, ma in quanto adatta ad una Nazione in grado, nell’affermare le specificità territoriali, di costruire uno Stato ‘leggero’ quale architrave portante dei valori, dei doveri e dei diritti in versione nazionale, garantendo, nel contempo, le regole economiche a cui l’insieme nazionale dove attenersi nell’interesse di un nuovo modello di sviluppo.

La forma federale ‘leggera’ richiede una nuova costruzione normativa sul piano istituzionale e non deve spaventare l’idea di una nuova Carta Costituzionale, figlia comunque del grande dibattito democratico già sviluppato in sede di Costituente, in grado di garantire costituzionali autonomie in un quadro certo di riferimento valoriale, dal quale lo Stato trarrebbe una forza equilibratrice innovativa. Oggi le spinte autonomistiche sono difficilmente controllabili dall’attuale quadro istituzionale, se non attraverso un maggiore e più rischioso accentramento delle decisioni, che già si manifesta nella trasversalità delle politiche dei Poli, attraverso la realizzazione della nuova composizione delle forze politiche che alimentano la vita parlamentare.

Limitare la vita politica a quelle sole forze che solo numericamente sono in grado di dettare l’agenda delle decisioni è la via più pericolosa che l’Italia abbia imboccato: il dialogo, forza viva, per l’attuazione dei valori liberaldemocratici è stato interrotto. Di fatto il pluralismo costituzionale è stato sospeso, in nome di un riformismo che, appropriandosi della terminologia liberaldemocratica, decreta, nella confusione culturale che da oltre un ventennio caratterizza il dibattito politico, l’allontanamento delle masse dai reali valori che il pensiero liberaldemocratico rappresenta.

Occorre, prima che pensare alle alleanze, dettare l’agenda della costruzione di un nuovo modello sociale ed istituzionale sapendo cogliere i fermenti innovativi che esistono nella società nazionale e internazionale, riportandoli a sintesi attraverso il riformismo liberaldemocratico.

La politica, in sostanza, deve ritrovare il proprio spazio regolatore soprattutto dei fenomeni economici che transitano attraverso strutture sovranazionali offrendo soluzioni nazionali adeguate agli effetti, spesso rapidi, della globalizzazione. Uno Stato flessibile non è uno Stato che demanda a terzi le proprie responsabilità, ma sa adeguare la propria azione nell’interesse della società. Società che sempre di più trova nell’espressione territoriale la propria vocazione di sviluppo e il proprio desiderio di competizione.

Occorre, per dare adeguate risposte, comprendere le esigenze dei diversi sistemi economici, sia territoriali che nazionali o sovranazionali, e non è possibile, per serietà e per professionalità, offrire risposte omnibus, ma occorre ridisegnare il ruolo dei diversi livelli per raggiungere una omogeneità delle azioni che sappiano rispondere in modo adeguato a quanto richiesto dal ceto medio allargato.

Il sistema politico deve ritornare alle origini del proprio pensiero democratico, archiviare le restanti opzioni ideologiche ancora presenti, e, sul modello liberale, saper trasformare, recependo gli insegnamenti sin qui giunti a noi, la ricchezza delle opzioni in un sistema politico avanzato. Il nostro Paese non ha mai sperimentato una vera società liberaldemocratica, si è sempre dibattuto su un riformismo ‘d’antan’ nel quale l’individuo, pur citato, non è mai stato posto al centro dell’azione pubblica. La nostra democrazia, in sostanza, è un rimescolamento di quanto la storia ci ha costretti a vivere. Dalla monarchia e dal fascismo non abbiamo saputo trarre adeguati insegnamenti e la nostra Repubblica si è trovata a vivere tra un passato che non è mai tramontato e un presente frutto di ideologismi nemici della libertà, dell’eguaglianza e, spesso, dell’uomo. Oggi quell’uomo deve riappropriarsi della sua centralità politica e istituzionale e da questa centralità far discendere il ruolo nella sua appartenenza associativa, per divenire forza motrice del nuovo sistema produttivo e istituzionale.

La ricchezza del nostro Paese è data dalle piccole e medie imprese: cosa sono se non l’espressione di un impegno individuale? La nostra economia non poggia, seppur ci illudiamo di questo, su un sistema capitalistico di grandi imprese, ma su un sistema reticolare di piccole e medie aziende. La globalizzazione e la crescita del ceto medio nelle aree già citate porranno alle nostre aziende ulteriori problemi di competitività, andandosi a stratificare sopra quelli che già oggi vengono affrontati per le errate risposte dell’attuale sistema politico.

La vera diversità tra le forze politiche sarà nella gestione delle sensibilità per una autentica interpretazione del futuro.

Se i principi fondamentali della democrazia liberale non sono in discussione, non appaiono, attualmente, in discussione nemmeno quelli della solidarietà. Occorre precisare, in questa sede, che il riconquistare la pari dignità nazionale all’interno delle strutture sovranazionali, non avviene e non avverrà attraverso eventi bellici ma esclusivamente attraverso la capacità, da parte di ciascuno Stato, di saper governare la propria società.

Così come non sono in discussione la dignità del lavoro e la salvaguardia della natura umana, sia interna che estera.

Le tensioni future assomiglieranno molto, almeno esteriormente, a quelle già codificate nei pensieri socialisti e della destra nazionale, ma non sarà così. Il pericolo è quello di una rilettura delle pagine della storia ideologica, con la conseguente caduta nella demagogia e nella diseconomia. Quest’ultima assai più grave.

Egoismi e facilonerie non possono nello scenario futuro accompagnare la pace sociale: questa, o diviene l’accettazione del sacrificio per il mantenimento e lo sviluppo della società, o sarà il caos.

E per fare o richiedere simile impegno lo Stato deve assumere il ruolo di garante reale nell’alleanza partecipativa, all’interno della quale a ciascuno verrà richiesta una porzione di sacrificio.

La sfida sarà sui programmi e su come garantire uno sviluppo il cui margine negativo ricadrà su una limitata parte della società, la quale dovrà essere "risarcita" attraverso una efficienza pubblica oggi inesistente, offrendo alla stessa, sempre e comunque, la possibilità di recuperare, per tornare ad essere parte attiva della società.

Il quadro internazionale a cui dobbiamo riferirci non rappresenta più il derivato degli accordi di Yalta né quello di Bretton Woods. Forse nemmeno gli accordi che regolano la vita del WTO o del FMI rispecchiano il quadro internazionale venutosi a delineare. E’ evidente, inoltre, la profonda crisi in cui vive la principale organizzazione internazionale alla quale, da parte degli Stati associati, occorre dare una maggiore forza e considerazione: l’ONU. Qualsiasi riforma che ricalchi lo schema suggerito alla fine del Secondo conflitto mondiale può non rispondere alle nuove esigenze di un organismo non dotato di reali poteri finalizzati al mantenimento della pace mondiale e al contenimento dei conflitti regionali.

Non si tratta di auspicare un’istituzione in grado di tenere testa alle esistenti superpotenze, ma ricevere da queste la dovuta attenzione per le finalità dalle stesse sottoscritte.

L’indebolimento dell’ONU rappresenta (non si può parlare di fallimento per l’opera svolta dalle innumerevoli Agenzie allo stesso facenti riferimento) una grave responsabilità che non va sottaciuta a carico degli Stati che in seno al Consiglio di Sicurezza, per una visione nazionalista degli interessi, limitano le funzioni dello stesso organismo internazionale.

L’ONU è il primo organismo internazionale che attraverso il proprio statuto, approvato nel 1948, ha reso universali i valori e i principi della moderna liberaldemocrazia, con particolare attenzione ai diritti dell’uomo, delle donne e dei fanciulli. Il non poter realizzare le finalità per cui è sorto pone in discussione, per interessi geopolitici, l’affermazione di tali principi in tutte le nazioni che hanno sottoscritto l’atto fondativo.

I principi devono ispirare l’azione delle Nazioni con la consapevolezza che la sospensione anche parziale o temporale, per motivi o interessi pragmatici o puramente ideologico/emotivi, può provocare l’arretramento dell’affermazione degli stessi relegandoli ad una funzione puramente ideologica, la cui efficacia viene annullata dall’impossibilità di tutela degli stessi.

La concretezza della politica internazionale che si basa sulla tutela e sul riconoscimento dei reciproci interessi e sulla validità di accordi bilaterali, meno su quelli plurilaterali, può condurre alla difesa di Stati le cui azioni si materializzano nella negazione di quei principi liberaldemocratici a cui ci si ispira.

Non siamo, nell’era della globalizzazione, ancora giunti al declino dello stato-nazione e gli stati non sono ancora completamente ridotti all’impotenza ed esautorati dal processo di globalizzazione. Se, dal punto di vista dei valori, la globalizzazione è un processo neutro, la stessa è però legata a due aspetti per nulla neutri: il libero mercato e i mezzi che vengono utilizzati nel fare avanzare il processo di globalizzazione. Tra questi ultimi rientrano la deregulation, le liberalizzazioni, la riforma dello stato sociale, l’introduzione di diverse regole per l’ordine pubblico, ecc. Su tutto ciò, in una dimensione internazionale, l’influenza dei mercati finanziari determina o può determinare la scelta delle priorità politiche nazionali.

E’ evidente che quanto è andato maturando negli ultimi 20 anni pone un interrogativo non secondario per il mantenimento delle relazioni internazionali: venendo meno la sovranità nazionale quale sviluppo potrà avere il diritto internazionale? Domanda non semplice alla quale non può non essere collegato lo sviluppo dei diritti umani e delle società più arretrate.

E’ altrettanto evidente che gli attori internazionali stanno mutando e di conseguenza mutano i ruoli e le funzioni.

Spesso la realpolitik degli Stati che si ispirano alla liberaldemocrazia ha prodotto profonde ferite in seno alla società internazionale, negando quell’autederminazione dei popoli che è alla base della filosofia dell’ONU.

La democrazia non si esporta, ma si costruisce con il concorso delle diversità insieme alle quali è determinante arrivare ad un processo di revisione culturale profonda, per ridisegnare un metodo della convivenza basato sul rispetto delle ‘altre’ interpretazioni della democrazia che spesso si incrociano in diverse aree del pianeta, se non addirittura si confondono, con interpretazioni teologiche, che possono apparire in contraddizione con il pensiero nato dall’esperienza rivoluzionaria europea o americana. In questa direzione è altrettanto importante che, accanto ad una interpretazione laica della convivenza, si presti attenzione al dialogo interreligioso che, seppur spesso distante dai principi della liberaldemocrazia, può agevolare il processo di riflessione all’interno degli Stati teocratici.

Sul piano internazionale la liberaldemocrazia, pur vincitrice, ha subito una mutazione lasciando spazi che sono stati occupati da preoccupanti schemi che si rifanno a interpretazioni idologico-nazionaliste assai più convincenti per l’arretratezza culturale, in cui il mondo si è trovato a vivere dopo la caduta del sistema sovietico. Vuoto che non è stato occupato adeguatamente dai sostenitori della democrazia, impegnati in un rigurgito di potenza a danno di altri popoli, seppur giustificato dalla trasformazione qualitativa e metodologica del terrorismo.

La migliore risposta a tale debolezza è di accelerare il processo politico dell’Europa.

Dopo l’Europa economica, tappa fondamentale per la pace dei popoli europei e tra questi e i popoli della terra, occorre arrivare ad un’Europa politica che sappia essere un modello politico futuro, come in parte sul piano economico già appare.

Giunti a questo punto, al di là delle dichiarazioni di intenti occorre affrontare, con maggiore convinzione, i problemi rappresentati dalle diverse realtà che compongono l’Europa, per arrivare ad un modello comune di sviluppo civile e sociale. Nessun modello degli Stati Uniti d’Europa sarà valido se in premessa non prenderà in considerazione un aspetto fondamentale: la volontà di tutte le nazioni europee a pervenire ad una reale Costituzione europea che rappresenti la ‘Grundnormkelseniana alla quale fare riferimento per rielaborare le costituzioni regionali a salvaguardia delle specifiche originalità culturali che le singole regioni europee rappresentano.

Sarà un percorso lungo e per nulla semplice, durante il quale il rafforzamento dei nazionalismi rappresenterà la minaccia più concreta, forse più di quella delle azioni di interposizione che possono essere messe in campo da interessi extraeuropei.

Se è l’ottimismo per la giustezza di un tale progetto a guidare l’azione liberaldemocratica, la stessa non può astenersi dall’offrire i rimedi per una maggiore sicurezza a chi si sente o sentirà defraudato di una sovranità che al momento attuale rappresenta un forte condizionamento alla piena realizzazione europea.

La Costituzione europea non può non prevedere la definizione dei poteri guida e di giustizia secondo la classica divisione tutt’oggi caratterizzante i sistemi liberaldemocratici europei, ma al contempo deve saper prevedere meccanismi di salvaguardia della sovranità, non più dello Stato delegante, ma del popolo che sceglie o sceglierà di vivere in una realtà complessa e omogenea.

Per questo è giusto avviare una seria discussione preliminare tra i rappresentanti della liberaldemocrazia europea sul livello legislativo e di tutela dei singoli popoli europei.

E’ a tale proposito che si lancia l’ipotesi di due Camere, una Alta ed una Bassa, dove quest’ultima rappresenti le istanze dei singoli Stati, ove gli interessi di questi, attraverso rappresentanti designati, vengano adeguatamente valutati in diretta dialettica con la Camera Alta, unico organo elettivo deputato a legiferare.

Una proposta che deve divenire oggetto di discussione, perché rappresenta il vero cuore dell’Europa federale da cui far discendere uno schema costituzionale relativo alle diverse funzioni collegiali e non solo.

In questa visione diviene fondamentale il ruolo dei partiti europei, la loro unità, la loro omogeneità e i programmi definiti in ambito europeo e non più solo in ambito nazionale.

L’Europa, da ideale, è oggi una realtà da cui non possiamo prescindere e per la quale occorre adeguare, in via preventiva, l’organizzazione istituzionale di ciascuno stato membro.

Se rigore ed equità rappresentano i cardini di un modello di riferimento, il progetto politico che è stato precedentemente evidenziato per la riforma della Repubblica italiana è finalizzato a divenire un modello per il futuro dell’Europa. I partiti e i cittadini che faranno riferimento ad una società liberaldemocratica allargheranno gli orizzonti delle proposte e si porranno su un livello valoriale pari a quello dei padri dell’Europa, la cui sintesi è rappresentata dal Manifesto di Ventotene.

L’Europa deve saper inventare una forma di unità che superi le esperienze politiche del passato, che non risponda solo alle esigenze interne, ma sappia rispondere alle sfide esterne del mondo contemporaneo.

L’Europa ha tutte le potenzialità per conservare una propria autonomia e mantenere una propria identità, ma soprattutto, ha le qualità economiche, demografiche e politiche per garantirsi l’indipendenza e divenire un attore di pace e di equilibrio nel complesso mondo delle superpotenze, antiche e nuove.

L’auspicio è che l’Europa, dalla crisi attuale e dagli strumenti economici adottati e condivisi, trovi lo slancio per dare vita agli Stati Uniti d’Europa, per far sì che tutti i popoli possano, nel tempo, raggiungere i progressi auspicati.

L’Europa dei popoli si costruisce attraverso le nuove generazioni e riteniamo, pur nel mantenimento delle singole specificità, che un passaggio ineludibile sarà quello di realizzare un modello di istruzione europeo attraverso il quale la storia dell’Europa accomuni tutti i giovani e faccia svelare loro la grande potenza democratica, raggiunta attraverso la pace e il dialogo culturale, che rappresenta oggi il nostro Continente.

Facciamo nostre le priorità della strategia Europa 2020:

1) Crescita intelligente: sviluppare un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione;

2) Crescita sostenibile: promuovere un’economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde, più competitiva;

3) Crescita inclusiva: promuovere un’economia con alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale.

Ma non illudiamoci che gli obiettivi delineati possano essere raggiunti senza una convinta riforma istituzionale.

I liberaldemocratici hanno una certa idea d’Europa, quell’idea che dal Risorgimento ad oggi ha guidato l’azione politica di intere generazioni. Non possiamo non cogliere il momento dell’impegno che ci spetta e portare a sintesi tutte le sensibilità dei popoli europei per realizzare una grande Federazione nell’interesse della pace e dello sviluppo dell’Umanità.