Verso il Congresso straordinario. Il dibattito al Consiglio Nazionale del Pri

Un progetto per il Partito e l’Italia

L'amico Saverio Collura ha aperto i lavori del Consiglio Nazionale presentando, anche a nome del comitato appositamente costituito, la relazione per il prossimo congresso del Pri. La relazione finale sarà integrata dagli apporti già pervenuti recentemente e da quelli che potranno pervenire da parte di tutti gli amici repubblicani.

di Saverio Collura

Il congresso straordinario del Pri, nella sua preparazione e nel suo svolgimento, si attua in un momento molto particolare e delicato per l'Europa, per il sistema Italia, per il movimento repubblicano.

L'Europa come continente geografico e quindi come insieme di paesi è tuttora reduce da una grave recessione economica, forse la più estesa del dopoguerra; come progetto politico vive una fase di indeterminazione. L'Italia, naturalmente, sconta tutte quante le difficoltà complessive dell'Europa, ma con una virulenza ed una accentuazione nettamente superiore alla media del continente, sia per i motivi economici e finanziari (storici limiti e handicap strutturali), sia per la complessiva difficoltà nella quale si dibatte il nostro sistema istituzionale, politico, e sociale. La nostra situazione, in sostanza, si manifesta come una profonda crisi antropologica, che è anche crisi di identità e di rappresentatività.

Il movimento repubblicano, che pure rimane tuttora caratterizzato da un solido ed efficace patrimonio di idealità, di cultura politica, e di senso quasi sacrale delle istituzioni, sta attraversando una fase di estrema difficoltà, sia come conseguenza della crisi complessiva del sistema politico e sociale nazionale, sia per fenomeni e situazioni più interni, e quindi peculiari del nostro partito, che si evidenziano nell’acuta difficoltà in atto a proporsi come soggetto politico referente di uno specifico segmento elettorale del paese. Da qui la difficoltà a trovare spazio significativo nelle assemblee elettive istituzionali.

Le tre questioni prima enucleate devono essere il terreno di dibattito, di approfondimento e di confronto, e quindi di proposta politico-programmatica della nostra prossima assise congressuale. Ovviamente ognuna delle tre questioni evidenziate ha riferimenti, risvolti ed ambito politico-culturali complessi ed estesi, che richiedono impegno e volontà, per poter concentrare le energie intellettuali e morali del Pri nel cercare di comprendere prima, e di risolvere poi.

Se sapremo superare sterili ed inutili polemiche (che spesso sono pretesto per mascherare inadeguatezza progettuale) con lo sguardo rivolto al passato, ed invece attiviamo il confronto e il dibattito, anche aspro ma leale, sulla ricerca di soluzioni, sull'indicazione di percorsi, sull'elaborazione di proposte, allora avremo offerto un importante contributo ai problemi del paese; e nel contempo potremo ritrovare il senso e la funzione dell'impegno politico repubblicano, rinnovando così il suo messaggio e la sua presenza nella cornice politica nazionale.

I Partiti

Nell'attuale situazione di crisi generalizzata e complessiva, la politica rappresenta uno dei punti di maggiore criticità; il suo degrado è causa non secondaria delle estreme difficoltà nella comprensione, nelle gestione e nel superamento della crisi di ordine sistemico in atto. La constatazione vera, profonda ed amara è che la politica non ha saputo comprendere e quindi guidare i profondi cambiamenti che si venivano a manifestare nelle società complesse moderne, investite da fenomeni di profondo e strutturale cambiamento.

Nel mondo, in quest'ultimo decennio, sono cambiati i punti di riferimento del potere economico. L'equilibrio tripolare nella seconda metà del 21º secolo è radicalmente cambiato: non più USA – Europa -Unione Sovietica, perché nuovi paesi si sono proposti come soggetti incisivi del sistema economico planetario. Sono venute meno le schematizzazioni alle quali eravamo abituati; il vecchio equilibrio del terrore nucleare è tramontato, lasciando sul campo gravi problemi di democrazia incompiuta, di bisogni economici e sociali incombenti, che pongono con sempre più forza le necessità di dar corso ad investimenti consistenti, e quindi alla ricerca delle risorse finanziarie da impiegare. A ciò è da aggiungere che cresce il consumo delle risorse naturali ed alimentari, vitali per soddisfare bisogni essenziali e per garantire equilibri geografici ed umani. In questa cornice complessa, necessariamente definita in modo schematico e parziale, si evidenzia la crisi profonda della politica, che stenta a comprendere i fenomeni, razionalizzare gli eventi e le connesse difficoltà ad inquadrarli in un progetto complessivo, che sappia dare prospettiva, speranza, serenità.

Ancora più acuta, più complessa quindi di più difficile comprensione appare la situazione politica del nostro paese. Sembrerebbe anzi di poter dire, come avviene per la moneta, che la cattiva politica ha scacciato la buona politica. La situazione appare sempre più complessa, piena di incognite, ed alimenta nelle persone ansie, paure, preoccupazioni e disagi; fenomeni questi forieri di gravi pericoli per la tenuta dell'equilibrio del sistema sociale. Appare sempre più evidente che la politica non ha saputo cogliere la complessità degli eventi che si svolgevano nella società italiana, che non era più impostata su rigidi schematismi e stratificazioni definite, e per molti versi anche facilmente interpretabili: ideologia, religione, famiglia, fabbrica, lavoro.

La globalizzazione ha reso obsoleti i capisaldi su cui si era costruita l'economia italiana; la concorrenza, i costi di produzione, l'innovazione tecnologica dei prodotti e dei processi hanno spazzato via la vecchia cultura del lavoro; prospettando un nuovo modello alternativo basato sulla conoscenza, sulla interazione con gli altri, sull'efficacia e sulla qualità dei servizi. Ciò ha comportato una "rivoluzione copernicana", passando dalla centralità dei soggetti collettivi a quella dell'individuo. Da ciò l'essenza della crisi antropologica che caratterizza le vicissitudini in essere. Si ripropone quindi la questione della buona politica, che sappia e possa governare i nuovi fenomeni complessi su cui vive la democrazia. Ma come non ci può essere vera democrazia senza una buona politica, così non può esserci una buona politica senza partiti adeguati ed idonei alla loro funzione e missione.

Lo scenario caratterizzante la situazione in atto e la visione prospettica del sistema dei partiti nazionali appare sempre più desolante e preoccupante, sia in conseguenza della endemica incapacità dei partiti a rinnovarsi, per poter trovare efficaci risposte alle rinnovate esigenze di governo del paese; sia per la inadeguatezza progettuale tanto dei partiti, quanto dei nuovi movimenti apparsi più o meno di recente sulla scena politica, e che hanno raccolto in modo consistente il consenso dell'elettorato, in forte movimento.

Ma l'elettorato italiano, almeno nella sua grandissima maggioranza, non sembra, come prassi ormai consolidata, interessato a convogliare il consenso elettorale su chi indica, nella durezza della drammaticità, la reale situazione dell'Italia; bensì verso chi persegue il consenso per il potere e non per il governo: così accadeva tempi di Ugo La La Malfa, così continua ancora oggi. Salvo poi, in preda alla cocente delusione, spostare la propria delega verso la brutale e spesso inutile protesta; accentuando in modo parossistico la crisi dei partiti. Questa è la situazione che siamo al momento vivendo.

Responsabilità

Ciò non attenua affatto la responsabilità dei partiti (che sono sempre gli stessi, al di là dei cambiamenti di nomi, e/o di aggregazioni via intervenuti). In questo momento i due più grossi partiti tradizionali stanno vivendo la crisi più acuta della loro esistenza; lo dimostrano due dati estremamente significativi: hanno perso, accomunati insieme, oltre 25 punti percentuali di consenso elettorale; hanno registrato una drammatica riduzione dei loro iscritti, come documentato dallo studio pubblicato dall'università Bocconi. Non resta quindi che prendere atto del fallimento del così detto "Bipolarismo all’italiana", che ha reso sì possibile l'alternanza e la scelta di uno schieramento vincente, ma che nei fatti ha creato le condizioni per l'ingovernabilità. La drammaticità e la forza dei dati economici, finanziari e sociali di quest'ultimi 20 anni di vita del paese lo dimostrano in modo evidente, come verrà documentata in seguito.

Per cogliere con maggiore significatività lo stato di crisi dei partiti, basta ricordare quanto scriveva qualche mese fa il noto politologo prof. Ignazi: "in un paese come il nostro, patria della clientela e parentela, con un'amministrazione permeabilissima agli influssi politici e con un ampio settore pubblico, i partiti si sono trasformati in locuste" . Si conferma, in sostanza, la profonda crisi di identità, di ruolo, di prospettiva del sistema nazionale dei partiti, che si concretizza nella loro inadeguatezza rispetto alle esigenze di governo di una società industriale moderna, con profondi problemi di squilibrio sociale e territoriale, con insufficienze estese, con incrostazioni burocratiche e con egoismi diffusi che possono addirittura prefigurare possibili minacce sulla tenuta democratica e sociale della nostra comunità. C'è in sostanza una profonda carenza di leadership dei partiti, evidente ed acute nel PD; mascherata nel PdL dalla personalità preponderante e totalizzante di Berlusconi, ma non meno grave se si valutano con attenzione, al di là delle forme esteriori, i problemi che si pongono in quell'organizzazione politica.

In questo contesto appare sempre più problematica la prospettiva che la politica sappia, possa e voglia esprimere una guida prestigiosa e credibile in grado di indicare al paese un'idealità, una meta, un percorso.

Manca in Italia l'attitudine a voler conoscere la piena verità sullo stato di salute del paese; la classe dirigente ha sempre fornito una diagnosi narcotizzata. Parallelamente l'elettorato ha generalmente riversato il consenso su quelle forze politiche che gli dicevano le cose che voleva sentirsi dire. Quanta distanza dalla Thatcher, che soleva dire che un leader è tale se sa portare avanti gli impegni di governo che sono essenziali allo sviluppo del proprio paese, non quelli che gli danno un facile consenso elettorale, che deve invece venire in conseguenza della soluzione dei nodi cruciali della vita sociale di una nazione.

Non vi è dubbio che alla base del crollo di prestigio e di credibilità della politica e quindi dei partiti agli occhi dei cittadini c'è con forza questa inadeguatezza della classe dirigente, che prima promette ed asseconda i desiderata degli elettori, i quali di buon grado accolgono questi comportamenti demagogici; ma che poi, quando i vari contraccolpi negativi del non governo si trasformano in aumento del peso fiscale e deterioramento dei servizi pubblici, allora tendono a punire con durezza. Da ciò la forte reazione di rigetto dei cittadini rispetto ai problemi del finanziamento pubblico dei partiti; anche alla luce dell'abuso e dello sperpero che i loro dirigenti, con più accentuazioni nei livelli locali, hanno fatto e fanno delle risorse finanziarie a loro disposizione. Né d'altra parte si può dire che l'esperienza delle alleanze di ampia intesa (essenzialmente PD - PdL) nell'attuale governo nazionale indichi una diversa linea di marcia dei partiti, in tema di comportamenti demagogici ed elusivi. Ma questo argomento, per la sua portata più ampia e più strategica, richiede una riflessione più specifica più incisiva e più finalizzata.

Crisi

In questa cornice va inserita e "letta" la crisi del Pri, analizzata nelle sue componenti di ordine generale, e negli aspetti più specifici e propri del movimento repubblicano. E’ evidente che un partito che affonda le sue radici nella storia politica del paese, e che ha mantenuto e conservato inalterato il suo patrimonio di idealità, di cultura, nonché la sua peculiarità di organizzazione caratterizzata, nell'immaginario collettivo, come soggetto politico con forte caratura su temi economici e finanziari della nazione, subisse in modo consistente gli effetti di una crisi profonda del sistema dei partiti. Un "Partito di nicchia" che nella fase della cosiddetta prima repubblica trovava un suo spazio caratteristico è caratterizzato, soffre fortemente la situazione di "bassa" politica, propria dei tempi del bipolarismo barbaro ed inconcludente. La specificità del Pri sui temi dell'economia, della laicità, della sacralità delle istituzioni repubblicane veniva travolta dalle problematiche inutili, pretestuose, dannose che hanno caratterizzato il confronto politico dell'ultimo ventennio. Ancora una volta la cattiva politica ha scacciato via la buona politica. Di questo ne hanno risentito fortemente il Pri ed il paese.

Tutto ciò, ovviamente, aiuta a comprendere i motivi della crisi del nostro partito, ma non dà la risposta sui motivi che hanno impedito al Pri di trasformare in opportunità, che pure risultavano possibili, le contingenze negative del sistema politico nazionale. Questo deve essere un tema centrale del dibattito e dello svolgimento congressuale, dal quale deve venir fuori un rinnovato progetto politico per il movimento repubblicano. Tutto ciò, come già accennato in precedenza, postula la necessità di volere incanalare nelle appropriate visioni, dimensioni ed analisi le problematiche delle gravi difficoltà in essere del Pri.

E’ indubbio che un punto di snodo è rappresentato dal congresso di Bari del gennaio 2001. Il partito nei mesi precedenti a tale appuntamento aveva formulato consistenti critiche alla coalizione ed al governo di centro-sinistra, a cui l'elettorato aveva affidato, con la composita maggioranza scaturita dalle elezioni del 1996, la responsabilità della guida dell'Italia. In quegli anni fu assunta la determinazione di aderire sin dall'inizio alla moneta unica (euro). Tale decisione non fu priva di contrasti all'interno della maggioranza, dal momento che Rifondazione Comunista, che sosteneva dall'esterno il governo Prodi, contrastava tale decisione, arrivando alla determinazione di revocargli la fiducia. In quell'occasione fu forte e netta la posizione favorevole all'euro del Pri.

Gli ultimi anni della legislatura, con due governi (D'Alema, Amato) instabili politicamente (le elezioni regionali del 2005 avevano sancito la sconfitta della coalizione di centro-sinistra e le dimissioni dell'onorevole D'Alema) sono stati caratterizzati da una isteria politica, tanto che fu indicato un candidato leader, l’allora sindaco Rutelli, diverso dal premier in essere, con la sostanziale sconfessione del governo in carica (Amato). In questa anomala situazione si inserisce la proposta formulata dall’allora Segretario nazionale del PRI, di sottoporre all’approvazione del Congresso nazionale la fine della partecipazione alla coalizione dell’ULIVO, per instaurare un nuovo ed inedito rapporto politico-elettorale con la coalizione di Centro-destra.

A quella scelta fu attribuita una valenza strategica ed una estesa prospettiva politica. Il risultato elettorale del 2001 fu però sostanzialmente negativo per il Pri, che registrò la non elezione dei candidati repubblicani nei collegi uninominali della Camera dei Deputati, l'elezione del segretario nazionale nella lista proporzionale di Forza Italia, e di un senatore nella Lombardia, per effetto dei recuperi conseguenti allo scorporo dei voti. A seguito di tale risultato, il segretario nazionale rassegnò le sue irrevocabili dimissioni.

Tutta questa ricostruzione per evidenziare il senso della grave crisi che caratterizzò le vicissitudini del Pri; una crisi profonda che non può essere ricondotta esclusivamente al negativo risultato elettorale, ma che evidenziava invece l'estensione e la profondità del disagio che attraversava tutto il movimento repubblicano. Su ciò è utile riflettere, anche per comprendere meglio le problematicità che caratterizzarono i successivi anni di vita del Pri. Probabilmente non fu preparata adeguatamente la svolta politica che si voleva imprimere al partito con il congresso di Bari; mentre era stata condotta una critica profonda all'esperienza di governo di centro-sinistra. Non apparivano forse evidenti, almeno ad una parte dei repubblicani, quale fossero il progetto politico ed i contenuti programmatici che motivavano la determinazione di una nuova alleanza per il Pri. Si creò invece un certo scompenso all'interno del partito, e probabilmente una situazione di stupito disagio nel bacino elettorale tradizionale repubblicana. Da ciò scaturì la soluzione di sostanziale "governante duale" che il consiglio nazionale definì con l'elezione di un nuovo segretario e del presidente del partito, carica quest'ultima al momento non ricoperta. Durante quella legislatura si accentuarono le difficoltà economiche e finanziarie complessive del paese. Né il ritorno al governo di un esponente del Pri con l'incarico di ministro comportò al partito particolari effetti di recupero di ruolo nel quadro politico nazionale. Nella crisi generale della coalizione di centro-destra, che fu sconfitta alle elezioni politiche del 2006 , rimase coinvolto lo stesso Pri; anche se la coalizione alternativa non ebbe il risultato sperato, e si crearono le condizioni per una continua instabilità del quadro politico nazionale, che sfociò, dopo appena due anni di vita della legislatura, nelle dimissioni del governo Prodi, e nello scioglimento anticipato del Parlamento. Nello scorcio di quella legislatura, il Pri manifestò la sensazione di voler avviare una fase di riflessione circa l'azione e l'impegno politico del partito nella geografia politica nazionale. Si crearono i presupposti per la elaborazione da parte del Pri di un progetto politico che si collegasse alle esperienze ed alla cultura della tradizione europea liberaldemocratica. In quest'ottica vanno collocati i due successivi eventi assunti dal partito: il convegno di Milano del 2007, e la lettera inviata dal segretario nazionale al ministro Padoa-Schioppa, allora responsabile dell'economia nel governo Prodi; mantenendo pur sempre una posizione di opposizione al governo stesso.

Entrambe le iniziative avrebbero dovuto essere funzionali all'esigenza di dare una rinnovata caratterizzazione all'azione politica repubblicana. Purtroppo non fu possibile dare concreta continuità e prospettiva, sia per una non maturata convinzione del partito di dare ulteriore sviluppo ai due impegni, sia perché la sopraggiunta crisi di governo portò, come prima accennato, ad elezioni politiche anticipate nel 2008. Il Pri scelse ancora una volta la coalizione di centro-destra , interrompendo nei fatti il processo che era stato avviato .

Il risultato elettorale indicò un forte successo della coalizione guidata da Berlusconi, che ottenne una consistente maggioranza numerica in entrambi i rami del Parlamento. Il Pri, invece, registrò la non elezione del suo unico senatore, in conseguenza della non felice collocazione che gli era stata riservata nella lista del PdL. In quanto primo dei non eletti, ottenne a distanza di qualche tempo il rientro in Parlamento a seguito di eventi non politici. Conseguentemente nella fase iniziale della legislatura, il Pri fu presente con due deputati; ma nel contempo si innescò nel partito una situazione di estrema tensione, perché dei due deputati, il segretario, in linea con la tradizione, aderì al gruppo misto, mentre l'altro si iscrisse, con scelta autonoma, al gruppo parlamentare del PdL, e venne inserito, per rappresentare quel gruppo politico, nella delegazione parlamentare NATO. Dopo ripetute sollecitazioni a desistere dalla scelta frazionistica, rimaste sempre senza successo, la direzione nazionale nel mese di luglio deliberò, all'unanimità dei presenti, la sospensione del suddetto parlamentare, a decorrere dal successivo mese di settembre, per consentirgli così un ulteriore possibilità di ripensamento. Il successivo mese di ottobre, finalmente, si sanò la situazione, con la iscrizione alla componente repubblicana, liberal-democratica del gruppo misto stesso. Inoltre, anche se la questione non arrivò mai all'attenzione degli organi statutari, quest'ultimo deputato ebbe a sollecitare ripetutamente, in via privata, le dimissioni del segretario nazionale, per procedere ad un avvicendamento nell'incarico con una terza persona. La dura polemica apertasi all'interno del partito fu molto aspra; gli eventi che la caratterizzarono sono fatti recenti a tutti noti. Ma la situazione creatasi instaurò uno stato di grave crisi all'interno del partito, che si è trovato poi a dover rispondere all'incalzante pressione esterna affinché il Pri aderisse al costituendo partito PdL. Su questa questione venne convocato un consiglio nazionale del partito, che si determinò non certamente con una decisione del tutto definita, anche se una parte consistente, tra cui anche il secondo parlamentare, era sostanzialmente incline a far convergere il partito nel PdL. Infatti fu deciso di affidare una delega totale al segretario nazionale, il quale, in fase di assemblea costituente del PdL, avrebbe definito la posizione da fare assumere al partito. Solo a conclusione di quella manifestazione fu possibile constatare che il segretario nazionale non aveva acconsentito a far confluire nel nascente nuovo partito il glorioso Pri. Nei mesi successivi, poi, senza che nel frattempo fossero intervenuti eventi politici particolari, lo stesso deputato propugnava con forza, in tutte le occasioni possibili, l'opportunità che il Pri interrompesse la collaborazione con il PdL .

Tesi

Intanto la situazione economica, occupazionale e sociale del paese evidenziava forti segnali di deterioramento. Il Pri continuò a porre con sempre più insistenza la questione di una idonea ed efficace governabilità dell'Italia, e maturò in modo molto netto la convinzione di dar vita, come risposta politico-operativa, ad una sua caratterizzazione più spiccatamente liberal-democratica europea. Per raggiungere questo obiettivo, si scelse, nell'incomprensione e nella diffidenza iniziale, il percorso del congresso a tesi; per potere così imprimere un forte spirito di rinnovamento della linea politica e dei contenuti programmatici. Per dar consistenza a questo obiettivo fu compiuto un complesso ed importante lavoro preparatorio, che trovò il compimento nell'assise nazionale del partito del febbraio 2011. Fu quella l'occasione per definire la prospettiva politica nella direzione della costituente repubblicana, liberal-democratica; e su questa base si ottenne anche l'importante risultato di una ritrovata unità con altre organizzazioni politiche repubblicane che avevano sviluppato un'autonoma struttura. Le tesi congressuali approvate dal congresso rappresentavano un momento di incisivo impegno programmatico, che avrebbe potuto consentire al Pri di formulare precise indicazioni in termini di programma di governo per il paese. Il movimento repubblicano recuperava la sua peculiarità di partito dei contenuti, che gli avrebbe potuto consentire di aprire un confronto ed un dialogo con tutte le forze politiche nazionali. Funzionale a questa strategia era l'affermazione dell'autonomia politica del Pri; ed infatti la mozione congressuale finale indicava chiaramente tale esigenza.

La tensione apertasi all'interno del PdL, con il contrasto Berlusconi-Fini, incise anche sul percorso politico del Pri. Infatti il governo vedeva significativamente ridotta la sua maggioranza parlamentare, proprio nel momento in cui la crisi nel paese incalzava, e l'esecutivo non riusciva a venirne a capo. Fu in questa situazione che il partito, mentre riaffermava l'autonomia politica, indicava nel contempo il suo vincolo di "lealtà" verso la pur malferma e menomata maggioranza di centro-destra. Ciò destava perplessità all'interno ed all'esterno del partito; conseguentemente si contestava al Segretario del Pri che la lealtà di un partito non può essere un atto predefinito, ma deve discendere dalla continua verifica di una constatazione politica di efficacia operativa del governo stesso, nonché dalla verifica delle opportune convergenze programmatiche. A ciò è da aggiungere che non ha certamente giovato alla nuova prospettiva politica del Pri l'iniziativa del cosiddetto "gruppo dei Responsabili", che caratterizzandosi essenzialmente come un insieme di parlamentari di varia estrazione con l'obiettivo apparente di conquistare quote di potere governativo, voleva fornire un supporto operativo al governo, che vedeva sempre più compromesso il suo raggio di azione. A tale evento venne collegato, forse inopinatamente, anche il nome del segretario nazionale del Pri, che nonostante avesse chiaramente manifestato la sua indisponibilità, ripetutamente esternata anche all'allora premier Berlusconi, ed ufficialmente espressa in diverse occasioni ai mass-media, venne indicato come il possibile capogruppo di questa aggregazione parlamentare.

I due eventi furono utilizzati all'interno del partito per dar vita ad una iniziativa politica parallela di sponsorizzazione del cosiddetto terzo polo, animato da Casini-Fini-Rutelli; provocando anche divisioni traumatiche in occasione di votazioni parlamentari. Gli effetti di tutto ciò furono le note determinazione del collegio nazionale dei proboviri, che produssero ulteriore tensione nel corpo del partito, già fortemente toccato dallo svolgimento degli eventi prima indicati.

La fine traumatica del governo Berlusconi nel novembre 2011 apriva una fase nuova della vita politica nazionale, ed in questo senso si potevano porre i presupposti per una diversa ed attiva azione del partito, in termini di una più accentuata autonomia politica.

In questa fase, il partito ha sviluppato un significativo impegno nel rapporto con il governo dei tecnici, e nell'approfondimento e nell'aggiornamento dei principali aspetti programmatici del governo del paese.

Al presidente del consiglio Prof. Monti, il Pri non ha mai fatto mancare un forte e convinto sostegno in Parlamento, ed un continuo apporto di contributi diretti di idee e di proposte, concretizzatesi queste ultime in due lettere del segretario nazionale, dense di contenuti fortemente innovativi, che se adeguatamente utilizzati avrebbero prodotto significativi benefici al paese. Ed anche il lavoro sui contenuti ha prodotto un documento con le caratteristiche di un originale e complesso progetto di governo dell'Italia, approvato dal consiglio nazionale del primo dicembre 2012.

L'incalzare della crisi politica, accentuata dalle decisioni del PdL di "notificare" la venuta meno del suo impegno organico nella maggioranza parlamentare che sosteneva il governo dei tecnici, ha fortemente condizionato il complesso iter necessario al Pri per rendere incisiva e apprezzabile compiutamente l'intensa produzione politica messa in campo. Da ciò la difficoltà operativa, che scontava anche la non compiuta indicazione di autonomia politica del Pri. Almeno così, al di là dell'efficacia più o meno significativa degli atti compiuti, è apparsa l'immagine del partito agli occhi degli esterni che osservavano l'azione politico-parlamentare dei repubblicani. A ciò è da aggiungere che alcuni movimenti politici, contigui per impostazione programmatica e con una accentuata caratterizzazione personalistica, toglievano agibilità politica, proprio a causa della complessità del percorso evolutivo in atto nel Pri.

In vista dell'ormai ineludibile e prossima campagna elettorale, al partito si ponevano due opzioni: portare sino in fondo, anche a lavoro non compiuto, l'indicazione dell'autonomo impegno elettorale, anche scontando la non presenza in Parlamento; oppure ripercorrere la pregressa esperienza di ricercare presenze in liste di altri soggetti politici. Il partito, nei suoi organi statutari, scelse questa seconda alternativa, che però non fu foriera di effetti positivi. Fu per questo motivo che il partito decide a questo punto di dar corso alla presentazione di liste autonome nella competizione elettorale che ormai era stata indetta. Ma la determinazione assunta, anche a causa di eventi non politici, ebbe conclusioni non certamente brillanti, dal momento che si presentarono liste in due sole regioni; in una situazione di partito certamente confusa e quindi di limitata efficacia. Forse è mancata in quella fase concitata la sufficiente visione strategica del problema, anche per i motivi non politici di cui si è prima accennato.

Il lungo percorso di analisi della crisi del Pri ha comunque evidenziato un dato di fatto incontrovertibile: il partito ha le credenziali, le potenzialità, la volontà di rappresentare un punto di riferimento, soprattutto in questo momento di vulnerabilità della politica, nello scacchiere nazionale; in ciò sostenuto dal suo forte bagaglio di idealità, dalla sua cultura e dalla potenzialità progettuale, elementi tutti questi utili per le prospettive evolutive del paese. Il superamento della crisi del Pri è a questo punto affidato alle determinazioni che verranno assunte dal prossimo congresso nazionale; a tale assise spetterà il compito di sciogliere i nodi politici ed organizzativi che hanno in diverse occasioni impedito un'efficace azione politica del partito.

Il paese, l'economia, lo sviluppo

L'Italia è la stella polare nell'azione del movimento repubblicano; i migliori esponenti del repubblicanesimo impegnati in politica hanno avuto come centro, come obiettivo della loro azione essenzialmente le prospettive e l'evoluzione del paese: cioè la democrazia repubblicana, senza la quale possono venir meno i principi della convivenza civile ed il rispetto per la centralità della persona.

Ma quanto è lontana oggi l'Italia da quell'approdo, e quindi dalla partecipazione a pieno titolo al consesso delle nazioni moderne, sviluppate, europee ed occidentali? Si direbbe tanto, forse troppo.

L'ultimo rapporto dell'OCSE sulla congiuntura economica mondiale indica che i più importanti paesi, a conclusione del secondo trimestre 2013, sono usciti dalla lunga fase di recessione. L'unico tra i membri del G8 a persistere ancora nella fase recessiva è l'Italia, che registrerà ancora variazioni negative di Pil anche nei due finali trimestri dell'anno in corso. Quindi la nostra economia troverà la strada dello sviluppo, se la troverà, con notevole ritardo rispetto ai paesi nostri principali concorrenti. Si conferma così la forte perplessità espressa a suo tempo dal Pri, quando nel 2011 le forze di governo affermavano che l'Italia sarebbe uscita dalla crisi globale prima e meglio degli altri paesi: viviamo ancora gli effetti di quella incomprensibile ed insostenibile affermazione. Non c'erano allora i presupposti per affidarsi a un tale ottimismo di maniera. Infatti il nostro sistema economico produttivo era stato investito dallo tsunami della recessione mondiale prima ed in modo più violento rispetto agli altri paesi; documentammo tutto ciò nella tesi congressuale sulla competitività; indicammo, in ciò sostenuti da uno studio della Banca d'Italia, che proprio a causa della maggiore debolezza cronica e vulnerabilità dell'Italia, causata dalla sua continua e costante perdita di competitività, il nostro paese subiva prima ed in modo più consistente gli effetti delle crisi finanziarie mondiali, e che riusciva ad riemergere dalla crisi con maggiore fatica ed in un lasso di tempo più lungo. E' di questi ultimi giorni la pubblicazione del rapporto annuale del World Economic Forum (W E F), che registra l'ulteriore retrocessione di posizione dell'Italia nella speciale classifica mondiale sulla competitività; l'Italia, retrocedendo di due posizioni, si attesta al 45° posto, mentre Germania, Inghilterra e Francia si attestano entro le prime 10 posizioni in graduatoria. Comunque tutti i paesi nostri concorrenti registrano significativi miglioramenti di competitività. Da ciò le infauste previsioni per il 2014, elaborate dall'OCSE, che indicano per l'Italia un tasso di disoccupazione del 12,5%, a fronte del 4,8% della Germania, dell'11,1% della Francia, e di una media per i paesi del campione OCSE dell'8,0%. Continuerà quindi nel prossimo anno la grave situazione occupazionali in generale, ed in modo più drammatico per i giovani e le donne.

Ma tutto il sistema sociale ed economico dell'Italia è investito da una crisi profonda, che lo rende fragile e senza difesa di fronte agli effetti negativi delle crisi economiche locali e globali. Il nostro paese è la prima frontiera a crollare; e così è stato dopo il 2007, allorché si manifestarono i prodromi di eventi recessivi, perché è senza difese per i rigidi vincoli imposti dal debito sovrano, che sostanzialmente impediscono qualsivoglia manovra congiunturale di bilancio o fiscale. Per la fragile struttura del sistema industriale, caratterizzato dal fenomeno del "nanismo" delle aziende produttive, nonché dalla cronica ed ormai strutturale fragilità finanziaria, conseguente all'insufficiente livello di patrimonializzazione, ed alla ridotta redditività del fatturato. Alla minore propensione all'innovazione di prodotto e/o di processo, conseguente al basso livello di investimenti in ricerca e sviluppo, rispetto all'impegno invece profuso dal sistema industriale dei paesi ad economia produttiva avanzata. Alla rigidità complessiva del sistema lavoro, regolato da una legislazione che impone seri vincoli strutturali e formali al processo di evoluzione dinamica del nostro sistema produttivo, che non può rispondere con immediatezza ed efficacia agli eventi congiunturali negativi esterni. Un sistema formativo e scolastico che stenta a trovare, anche a causa dei continui e mai risolutivi interventi di riforme legislative, un assetto in sintonia e funzionale all'economia di un Paese di moderna organizzazione sociale ed economica. Un assetto produttivo pubblico del tutto anacronistico ed insufficiente a sostenere la dinamica, l'innovazione e la crescita di una nazione dell'Occidente avanzato. In questo contesto un aspetto di particolare negatività è rappresentato dal cattivo funzionamento del sistema giudiziario, e di quello civile in particolare. Il risultato di tutto ciò è significativamente riepilogato e rappresentato dal dato relativo al costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) del sistema Italia, che è di gran lungo il più alto rispetto ai paesi concorrenti dell'Europa e del mondo.

Sono tutte queste alcune delle cause della stagnazione in atto nel nostro paese; e soprattutto dello stato di forte precarietà , che fa sì che l'Italia possa essere risucchiata in qualsiasi momento in una situazione di recessione ancora più profonda, qualora il sistema mondiale non dovesse riuscire a consolidare la incipiente ed ancora fragile fase di sviluppo e di crescita.

L'Italia paga un prezzo così eccessivo ed anomalo principalmente a causa dell'inadeguatezza del sistema politico nazionale a comprendere, gestire e correggere un percorso sbagliato, che si svolge dalla fine degli anni 80, e che ha visto una parossistica accentuazione nell'ultimo ventennio. Dobbiamo, quindi, convenire che la crisi del paese si manifesta in termini economici e finanziari, ma che le radici e le fondamenta sono nella politica. Conseguentemente e sulla politica del paese che va finalizzata l'azione di ammodernamento e di rinnovamento; senza una tale azione non sarà possibile costruire un efficace e duraturo progetto di rilancio, rinnovamento e sviluppo del sistema economico e sociale. Il paese infatti non sarà mai nelle condizioni complessive di rispondere con tempestività ed efficienza alle sollecitazioni periodiche di cambiamento che provengono dall'esterno, e che sono quasi fisiologiche in un sistema di economia globale e di tipo capitalistico.

Ma dare una risposta seria a questo problema dell'Italia non è semplice, e nemmeno gratificante, e tanto meno foriero di riconoscimento ed apprezzamento di ordine politico-elettorale.

Le conseguenze, le necessità e le priorità economiche e sociali del paese non si coniugano sinergicamente con gli obiettivi politici dei partiti nazionali. Da ciò l'inadeguatezza e l'insufficienza dei governi, a tutti i livelli istituzionali, a pensare, programmare, progettare e realizzare un’adeguata ed idonea amministrazione, in senso lato, della nazione. Servirebbero partiti lungimiranti, con un’alta considerazione della loro funzione; perché drammatica ed incalzante è la crisi che incombe sul presente e sul futuro dell'Italia.

Il Pri ha tentato ciclicamente di rendersi promotore attivo ed incisivo di un tale impegno: lo ha fatto con Ugo La Malfa e la sua nota aggiuntiva, finalizzata a portare nel paese una nuova cultura del confronto sociale attraverso la politica dei redditi; con Spadolini e la sua azione di guida di governo illuminata e foriera di prospettive; ancora di recente anche con le tesi congressuale dell'ultimo congresso nazionale. Non sono stati tentativi che hanno trovato la giusta attenzione e considerazione presso l'elettorato nazionale; ma ciò non vuol dire che bisogna desistere dal proporre una buona politica per l'Italia, anche se la cosa presenza tuttora estreme difficoltà.

La verità

Abbiamo detto come in Italia manchi l'abitudine e l'attitudine da parte dei cittadini a voler conoscere la piena verità sullo stato di salute del paese; conseguentemente la classe politica non si sente sollecitata a fornire risposte adeguate alle esigenze del paese, ma spesso si limita ad assecondare, e/o a prospettare soluzioni governative che, rispondendo a pressioni di categorie e ad interessi particolari, rendono sempre più perniciosa la situazione complessiva della collettività. Per cui oggi quando le forze politiche parlano di porsi in sintonia con il paese, non pensano alla formulazione di programmi efficaci ed in grado di risolvere i problemi nazionali, ma a come compiacere le aspettative egoistiche dell'elettorato di riferimento. Questo aspetto, sempre presente, è reso più accentuato nella vita della cosiddetta seconda Repubblica. La questione centrale è quindi come rompere questo circolo vizioso per rendere consapevoli i cittadini e responsabili le classi politiche. Questa esigenza evidenzia un'ulteriore anomalia del rapporto classe politica-cittadini, e riguarda la sistematica incapacità congenita nel nostro paese di predisporre tutti gli strumenti necessari a far fronte agli impegni, specialmente quelli in materia economica e finanziaria, che i vari governi, in nome del paese, assumono nelle più diverse situazioni ed istituzioni. Questo è il caso, solo per citare qualche esempio significativo, della decisione a suo tempo assunta, attraverso l'affermazione dell'autonomia della Banca d'Italia, di eliminare l'obbligo per la nostra banca centrale di acquistare i titoli del debito pubblico non collocati; o ancora gli obblighi assunti con il trattato di Maastricht; e da ultimo proprio gli impegni sottoscritti per il fiscal compact, e per il raggiungimento entro il 2013 del pareggio strutturale del bilancio nazionale. In tutti questi casi, agli impegni assunti non ha corrisposto l'individuazione e l'approvazione dei provvedimenti essenziali per farvi fronte.

Un altro aspetto della endemica difficoltà nazionale è rappresentato dal dato che un valente costituzionalista, oltre che brillante collaboratori di giornali, riassume nel termine: "Le troppe leggi rimaste vuote". Si tratta di tutti quei provvedimenti assunti di volta in volta dai vari governi e che poi non riescono a produrre alcun risultato pratico, se non quello dell'effetto annuncio. E’ il caso, ripreso a puro titolo indicativo, ma certamente non esaustivo del fenomeno, della legge sui prestiti di onore agli studenti universitari, varata nel 2011 dal governo Berlusconi, che ha sollecitato al momento l'interesse di appena 597 studenti.

Oppure ancora di tutte quelle leggi approvate, anche dopo aspri scontri politici, ma che poi richiedendo complessi provvedimenti connessi all'emanazione di regolamenti, e/o di atti applicativi amministrativi, perdono cammino facendo di efficacia, oppure entrano in vigore a distanza di lungo tempo. Rientrano in questa fattispecie alcuni provvedimenti del governo Monti che, anche dopo che aveva cessato la sua attività, non erano ancora divenuti compiutamente efficaci perché in attesa del completamento dell'iter amministrativo. Lo stesso dicasi per la riforma dell'università (Gelmini) varata dal governo Berlusconi, che stentava ad entrare in vigore, perché in attesa dell'approvazione di circa 100 regolamenti attuativi.

E’ un paradosso tutto italiano che provvedimenti legislativi, che apparivano di vitale importanza ed urgenza, tanto da usufruire dello strumento del decreto-legge, subivano poi l'inerzia della gestione burocratico-amministrativa.

Le conseguenze di tale comportamento hanno prodotto due effetti catastrofici sul sistema Italia: il primo è stato l'esplosione della spesa pubblica (non indirizzata, non controllata, non finalizzata), con le conseguenti ricadute in termini di aumento continuo del deficit di bilancio, del debito pubblico, dell'aumento del peso fiscale per cercare di far fronte ad un tale insostenibile e patologico incremento; comprimendo inoltre, sino a toccare livelli di assoluta insufficienza, gli interventi finanziari in conto capitale, rendendo così più ardue le prospettive delle generazioni future.

Degrado

Il secondo effetto si evidenzia nel forte degrado competitivo del sistema paese, cui abbiamo in precedenza accennato. Entrambi i due effetti sono stati ampiamente affrontati, analizzati e definiti adeguatamente nella loro genesi, evoluzione e situazione in essere nei due documenti ufficiali del Pri: le tesi congressuali, ed "Il programma liberal-democratico" approvato dal consiglio nazionale dell'1/12/2012. Oltre a conservare tuttora la loro piena efficacia, i due documenti evidenziano un risvolto molto particolare: per la prima volta un partito politico nazionale ha affrontato con un'ottica completa e profonda tutta la problematica relativa ai processi di competitività e sviluppo dell'Italia, paese dell'Occidente industrializzato, nel contesto di un'economia mondiale, con i conseguenti connessi vincoli, e con gli indiscutibili benefici che ne derivano da un tale "status". Purtroppo una certa inerzia culturale ed una difficoltà oggettiva a cogliere la forte valenza e peculiarità delle proposte da parte di alcuni elementi significativi del movimento repubblicano, in difficoltà rispetto al percorso a tappe forzate messo in atto, hanno sostanzialmente depotenziato la portata del complesso lavoro; da ciò l'affannoso, e forse confuso comportamento del partito in occasione della recente campagna elettorale nazionale, e di cui abbiamo già fatto cenno, in riferimento alla situazione di crisi del partito. Ma la strada da percorrere non può che tornare ad essere quella definita dalla mozione conclusiva del consiglio nazionale dell'1/12/2012.

Teorie

Chiusa questa utile digressione, riprendiamo l'analisi della crisi profonda del paese.

Fa ciclicamente capolino una perniciosa teoria, secondo la quale i nostri guai potrebbero discendere dai vincoli di appartenenza alla comunità (quasi) politica, economica e finanziaria europea, nonché dal suo allargamento all'attuale complesso di 28 paesi (si è aggiunta di recente la Croazia). Anche l'ex ministro Tremonti, alle prese con le gravi difficoltà dell'economia dell'Italia, faceva risalire le cause della difficoltà in atto all'accentuato processo di liberalizzazione dei mercati mondiali, con una accentuata critica per l'ingresso della Cina e degli altri paesi emergenti (i cosiddetti BRICS) nel W T O. Entrambe queste due singolari teorie ritenevano che fosse più opportuno rinchiudersi in recinti ristretti e protetti, piuttosto che attrezzarsi adeguatamente per cogliere le immense prospettive che possono derivare dall'operare in così ampi mercati.

Utilizzando questi espedienti fuorvianti, si pensa di poter contrapporre ad un problema strategico e strutturale, qual è la competitività di un sistema paese, una soluzione del tutto inefficace, perché fuori dal tempo e dalla cultura incombente. Ma la strada da percorrere è quella tracciata dai paesi europei nostri concorrenti, in primis dalla Germania, l'Inghilterra e la Francia,che si sono per tempo attrezzati per questo impegno; per non parlare dei paesi minori del Nord Europa.

Sembra di rivivere le ormai note polemiche tra Ugo La Malfa ed i vari presidenti di turno di Confindustria all'epoca dell'adesione dell'Italia al mercato unico europeo. Si sono visti poi i grandi benefici, già ipotizzati da Ugo La Malfa, conseguiti dal nostro sistema economico produttivo per effetto di una scelta così importante e lungimiranti. Ma allora c'era una classe politica diversa e più consapevole, e meglio in grado di cogliere le esigenze del paese.

E questo il nodo che la classe politica italiana non ha saputo e voluto sciogliere, ed è questa la causa prima dei nostri mali.

Abbiamo detto che l'Italia, se non sopraggiungeranno nuovi problemi dall'economia mondiale, supererà buon ultima la situazione di recessione in atto, sperabilmente alla fine dell’anno in corso.

Ma ciò non vuol dire che il paese avrà risolto i propri problemi e troverà davanti a sé una situazione tranquilla e di positiva prospettiva; tutt'altro. L'Italia, nonostante i grandi sacrifici affrontati, si trova tuttora in una stato di equilibrio instabile. E’ come un naufrago che è riuscito ad attestarsi su uno scoglio; ma è circondato da marosi di inaudita intensità, che in qualunque momento possono risucchiarlo nei vortici della tempesta marina. Il naufrago (il paese) si salverà se saprà attrezzare un ancoraggio efficace e durevole, che lo possa difendere dalle calamità esterne. L'Italia si salverà se saprà compiere tutto il percorso di innovazione, e di riforme per lo sviluppo essenziali per reggere l'urto della concorrenza nel mercato globale. L'alternativa a tale impegno non esiste, se non il declino continuo e costante, e non degno di un grande e nobile paese quale l'Italia.

Da questa constatazione dobbiamo partire per individuare proposte concrete per incentivare e sostenere l'atteso ed auspicato inizio della ripresa, affinché la stessa non si disperda già nella sua fase iniziale.

Va aggiunto che il raggiungimento del risultato è possibile, ma non scontato. I pericoli di ripiombare nella recessione sono tutti presenti, perché forte e gravi sono stati i danni inferti al sistema Italia. La necessità di sintesi nella trattazione delle problematiche non consente la lunga e complessa analisi che sarebbe necessario espletare; comunque già ampiamente svolta dal Pri nei due documenti ufficiali più volte richiamati prima, rispettivamente del 2010 e del 2012.

La domanda, però, da porsi, e rispetto alla quale non è possibile eludere la risposta, è: se in quest'ultimo ventennio la crisi dell'Italia ha raggiunti i livelli parossistici richiamati, nonostante il cambiamento della geografia dei partiti rispetto alla prima Repubblica; e sebbene si sia ampiamente concretizzata l'opzione dell'alternanza alla guida del governo tra schieramenti alternativi (negli ultimi vent'anni c’è stato l'avvicendamento di coalizione per cinque volte), la situazione di dissesto si è sostanzialmente cronicizzata, ciò vuol dire che la diagnosi non può essere limitata agli aspetti tecnici, economici e finanziari, ma investe in pieno la politica, anzi è in essa che potrebbe annidarsi la causa profonda, e dalla politica può e deve scaturire la risposta e la proposta risolutive. Ma se i due schieramenti, che fanno perno rispettivamente sul PdL (centro-destra) e sul PD (centro-sinistra), prima nello schema dell'alternanza, e dalla fine del 2011 nell'esperienza di comune collaborazione, non sono stati in grado, sino ad ora, di dare le adeguate decisive risposte, come è pensabile che ciò possa avvenire domani, se lo scenario politico-partitico resta immutato?

Questa è la questione centrale che dovrà affrontare il prossimo congresso nazionale del Pri, ed è per questo che è necessarie delineare , già da questa relazione, gli elementi fondamentali del "Progetto Repubblicano", tali da consentire poi, in un eventuale apposita sessione congressuale, la puntuale e compiuta predisposizione del progetto stesso.

Ma un altro aspetto della crisi dell'Italia necessita di una specifica attenzione, che al momento non sembra sufficientemente attivata: riguarda i problemi e gli effetti finanziari innescati nella spesa corrente, nel deficit pubblico, e quindi sul debito sovrano, dal governo degli enti locali, nelle varie articolazioni. Basta a tal proposito ricordare solo alcuni dati aggregati per comprendere il ruolo negativo di queste strutture politico-istituzionali. Circa il 75% del debito commerciale della pubblica amministrazione nei confronti delle aziende private è stato prodotto dagli enti locali e dalle strutture gestionali a loro riconducibili; il prelievo fiscale di loro competenza si è incrementato in 15 anni (1996-2011) del 114%, passando da 47 miliardi di euro a 102 miliardi (ultimo dato disponibile 2011). A ciò sono da aggiungere le possibili sopravvenienze passive, eventualmente "giacenti in letargo", ed oggi ancora non evidenziate data la particolarità dei bilanci del sistema aziendale "satellitare" degli enti locali. Nell'insieme siamo in presenza di un problema di dimensioni non trascurabili, al momento ancora non sufficientemente studiato ed approfondito.

In sostanza la "questione Paese" è certamente molto più complessa e più grave di quanto i soli conti pubblici centrali possono darne contezza.

L’Europa

Senza in nulla minimizzare i problemi specifici dell'Italia (i nostri compiti a casa), è però indiscutibile che solo in una prospettiva politica "con più Europa" risiede la complessa e completa risposta del futuro del nostro paese. Uno studio molto recente del Foreign Office ha evidenziato che alla fine del prossimo trentennio nessuno dei paesi dell'Europa, nemmeno la Germania anche se proseguisse con un ritmo di crescita molto più consistente dell'attuale tasso di sviluppo, potrebbe reggere il confronto competitivo, sia economico che politico, con le potenze degli Usa, della Cina e degli altri popoli che già oggi incalzano con i loro accentuati, anche se squilibrati, programmi commerciali e finanziari. Solo l'Europa, come un unitario ed integrato soggetto politico ed economico, potrebbe continuare a ricoprire un ruolo di attore significativo nello scacchiere mondiale. Ma "più Europa" non può voler dire più unione (vincoli?) economica e/o finanziaria, ma essenzialmente più forte integrazione politica, che deve estrinsecarsi in un'unica politica estera, quindi un unico soggetto attivo nell'Onu, e conseguentemente nel consiglio di sicurezza; una sola strategia militare, in grado di assumere sempre più significativi livelli di responsabilità operativa nei teatri di crisi mondiale; un'unica politica economico-monetaria per consentire un'azione integrata ed organica sulle tematiche del debito sovrano, della leva fiscale-tributaria, dell'allocazione delle risorse finanziarie comunitarie secondo un disegno organico, definito e fortemente finalizzato alla soluzione dei gravi problemi strutturali del continente, quali la competitività, la crescita, lo sviluppo occupazionale. Questi sono tutti grossi macigni sulla strada del futuro dell'Europa. La risposta logica e consequenziale alle questioni prima evidenziate è la realizzazione degli Stati uniti dell'Europa federale. È questo l'obiettivo fondamentale ed ambizioso per l'Italia, ma anche "un sogno ed una speranza" per il movimento repubblicano, sin da quando Mazzini passò, nei suoi progetti politici, dalla "Giovine Italia" alla Giovine Europa". All'opinione pubblica di allora, questa prospettiva appariva come un'utopia fuori da ogni speranza ed immaginazione; oggi viene spesso vissuta come una entità alla quale delegare, se del caso, qualche briciola di potere politico nazionale; e solo dopo lunghe, defatiganti e tortuose trattative comunitarie tra i governi nazionali. Ma l'approdo alla soluzione politica federale è ineluttabile, perché le analisi oggettive sulle prospettive e le difficoltà future di ogni singolo paese dell'unione lo rendono tale; il problema è come accelerare il percorso ed il processo, fissando prima possibile il momento di approdo.

Ciò necessita, in via prioritaria, che si avviino a soluzione diverse questioni, che invece perdurando comporterebbe necessariamente insopportabili ostacoli al processo di unione federativa.

Riguardano, in primis, la posizione dell'Inghilterra, che si trova in una situazione molto particolare, dal momento che non sembra in grado di sciogliere in via definitiva il nodo della sua permanenza stabile e definitiva nell'ambito dell'unione europea. I governi di quel paese, sino ad ora, non sono stati in grado di assumere una decisione chiara, e sciogliere così il quesito; non riescono nemmeno a fissare con certezza tempi e modi di svolgimento della possibile consultazione popolare che dovrebbe dirimere definitivamente l'annosa questione. Il problema per l'Inghilterra è certamente molto delicato, e la preferenza della popolazione sembrerebbe propendere verso la risoluzione del rapporto con la UE. Ma le valutazioni complessive ed oggettive impongono attente riflessioni. A tal proposito è utile ricordare il rapporto della segreteria di Stato degli Usa, che indica chiaramente la opportunità che l'Inghilterra rimanga un soggetto attivo ed essenziale dell'unione europea, riaffermando che lo storico rapporto politico speciale tra i due paesi è utile e proficuo soprattutto nell'ottica europea; ma perderebbe di efficacia se è svincolato da tale contesto. Questa determinazione degli Usa sembrerebbe aver aperto una seria riflessione all'interno della politica inglese, ed il richiamato rapporto del Foreign Office è un dato preciso. Forse le recenti decisioni negative del Parlamento sul coinvolgimento militare nel caso Siria potrebbero essere anche una reazione alla decisione della segreteria di Stato americana.

L'alta questione riguarda la dicotomia in essere tra i paesi che si sono impegnati nel percorso ambizioso (indicativo di una volontà unitaria) della moneta unica (l'euro), e i restanti Stati che hanno voluto mantenere la propria specifica moneta, dato questo che potrebbe essere indice di una non convinta volontà di progresso dei rapporti unitari. Ciò crea problemi non trascurabili, sia di ordine politico, dal momento che si è in presenza di un Parlamento europeo con rappresentanti di Stati con differenti monete, che possono indurre differenti comportamenti e determinazioni in un terreno di estrema delicatezza ed importanza qual è quello monetario. Inoltre con il Parlamento europeo è previsto ed attuato un rapporto organico della BCE, mentre nessun riferimento è previsto per le banche centrali dei paesi con moneta autonoma. Infine la questione della proliferazione delle cariche di vertice nell'ambito della UE pone serie questioni per una efficace, dinamica e tempestiva politica comunitaria, già di per se alquanto farraginosa.

Ma in questo momento contingente è aperta un'altra questione, che necessita di una presa di coscienza da parte dei paesi del Nord (e della Germania in particolare), che attraversano una fase di sostanziale stabilità finanziaria e di non trascurabile livello di benessere, rispetto alla situazione di forte criticità nella quale si trovano i paesi del sud Europa. I primi dovrebbero sentire l'impegno attivo, attraverso l'assunzione di opportune corresponsabilità finanziarie verso i problemi dei paesi in difficoltà finanziarie. Questi ultimi, a loro volta, dovrebbero, con impegni credibili, con il loro comportamento virtuoso e con gli opportuni provvedimenti legislativi a sostegno di un serio piano di riforme strutturali, indicare la ferma e decisa volontà di invertire stabilmente la rotta tenuta in quest'ultimo decennio; causa prioritaria delle specifiche ed acute difficoltà in essere, connesse alle gestioni di un debito sovrano, certamente conseguenza del proprio mal governo, ma che impone oneri non compatibili con le necessità dello sviluppo.

Non si tratterebbe in ogni caso di interventi( da parte dei paesi ricchi) di mera beneficenza, ma di veri e propri interventi congiunturali, che produrrebbero effetti benefici anche sull'economia dei paesi ricchi; se si tiene conto che questi, a cominciare dalla Germania, realizzano la parte più consistente della loro attività commerciale nell'area dell'euro . La soluzione dei problemi elettorali della Germania potrebbe imprimere una spinta significativa nell'affrontare questo delicato aspetto della convivenza politica europea.

A queste questioni bisogna rapidamente dare risposte e soluzioni; diversamente sarà impossibile prefigurare percorsi intermedi, certi e validi per il conseguimento dell'obiettivo dell'Unione Federale.

L'euro

L'introduzione della moneta unica è stato il passo più importante nel percorso di costruzione dell'unione europea. A distanza di oltre un decennio, si può benissimo convenire che il progetto è stato coronato da pieno successo, considerando nel complesso gli effetti tecnici conseguiti; l'euro si è affermato come moneta "forte" , sempre più impiegata nelle transazioni commerciali internazionali, in precedenza quasi dominio esclusivo del dollaro Usa. Ha migliorato in modo consistente il valore iniziale di cambio con il dollaro Usa (da 0,88 del 1/1/2002 a 1,32 del 31/8/2013); ed ha realizzato, nell'ultimo anno, robuste rivalutazioni rispetto a tutte le principali valute: +26% sullo yen, +20,5% sul dollaro australiano , + 10% sulla sterlina, +7% sul dollaro Usa, +2,6% sul franco svizzero.

Ed ancora, ai paesi utilizzatori, l'euro ha consentito un decennio di inflazione controllata e contenuta, svincolando gli scambi commerciali interni dai fenomeni "inquinanti" collegati alla fluttuazione dei cambi tra le monete.

Per l'Italia gli effetti specifici sono riconducibili prioritariamente ai consistenti risparmi conseguiti nelle cifre pagate per interessi sul debito sovrano, pari a qualche centinaio di miliardi di euro. O. Giannino, allargando il periodo (dal 1996 anno in cui viene definita l'opzione della moneta unica da parte dei paesi aderenti) di osservazione dell'evoluzione dei tassi di interesse, indica in circa 700 miliardi di euro questo beneficio.

Tale ammontare, che potrebbe apparire eccessivo, ha trovato riscontro in altri studi; ma anche volendo ridurre drasticamente al 50% la portata del vantaggio, esso resterebbe comunque molto consistente (almeno 350 miliardi di euro). Un dato è sicuramente certo, nel primo triennio successivo all'inizio della circolazione dell'euro (2002-2004), lo spread BTP-Bund era praticamente azzerato, senza che fosse intervenuta nessuna sostanziale variazione nei "fondamentali" economici dei due paesi.

Alla luce di questi dati, la prima considerazione da svolgere è che una classe politica inetta e sperperatrice (quella italiana) ha dilapidato, consentendo un'incredibile crescita di spesa corrente, un tesoretto derivato dall'euro; risorse queste che avrebbe dovuto essere impiegate per ammodernare l'Italia in tutti gli aspetti essenziali per la crescita e lo sviluppo: l'industria, la ricerca, le infrastrutture, la formazione, la tutela del territorio e dell'ambiente, del patrimonio culturale ed archeologico. Poco o nulla è stato fatto in quelle direzioni.

Certo la moneta unica ci ha impedito di utilizzare la leva della svalutazione, di cui l'Italia aveva fatto uso ed abuso dagli anni 70 in poi; ma questa limitazione valeva anche per i paesi con i quali realizzavamo la quota più consistente dei nostri scambi commerciali (Francia, Germania, Spagna, ecc.); mentre per le transazioni all'esterno dell'area dell'euro agivano le condizioni di stabilità monetaria con gli Stati prima indicati, ma ora nella veste di concorrenti. La seconda considerazione da fare e che gli altri paesi si erano attrezzati per operare in una situazione di cambi fissi, mentre l'Italia, come abbiamo già detto, non realizza quasi mai gli interventi essenziali per predisporre le proprie attività alle innovazioni complessive che lei stessa aveva propugnato e sostenuto. In sostanza abbiamo sperperato i benefici conseguenti ai minori tassi di interesse, non abbiamo colto i benefici dell'operare in una situazione di cambi stabili, ma abbiamo subito le conseguenze di non poter utilizzare la leva della svalutazione: ci sono tutti gli elementi per denunciare l'inettitudine di un'intera classe politica, senza distinzione di schieramenti.

D'altra parte, però, senza la partecipazione immediata alla moneta unica, l'Italia, con la sua lira, sarebbe stata una zattera in balia della tempesta dei mercati finanziari; e nessuna svalutazione sarebbe mai stata sufficientemente ampia, senza peraltro tener conto degli effetti inflattivi sui redditi dei cittadini italiani, a compensare i risvolti negativi dell'aumento dei tassi d'interesse sul debito sovrano, e sull'acquisto delle materie prime ed energetiche.

La crisi finanziaria del 2007 e le ricadute sull'economia reale hanno creato le condizioni di recessione del paese che abbiamo già più volte analizzato.

Una corrente di opinione pubblica, tra cui anche qualche repubblicano, ritenne di dover attribuire all'euro grandi responsabilità per i nostri gravi disagi; perché non solo ci impediva di effettuare svalutazioni, ma anche perché attraverso il patto di stabilità liberamente concordato in ambito U E non ci consentiva di attivare "manovre espansive" con l'aumento della spesa, nonché di impegnare la BCE ad acquistare i nostri titoli del debito pubblico , a tassi contenuti. Il tutto forse ignorando che l'Italia si trovava in quella situazione proprio per eccesso di spesa pubblica; che i trattati comunitari impedivano alla BCE di acquistare sul mercato primario titoli dei paesi membri, e che comunque tale operazione avrebbe richiesto l'apporto di capitali da parte degli azionisti della banca stessa(non potendo la BCE aumentare "liberamente" la base monetaria); come poi è avvenuto con i due fondi salva Stati, e quindi con il travaso di risorse e di ricchezza da alcuni paesi ad altri dell'area euro. Ciò non di meno, la BCE, già nel 2011-2012, ha realizzato consistenti interventi in favore dell'Italia (circa 200 miliardi di euro), con l'acquisto sul mercato secondario di titoli del debito pubblico italiano con scadenza non superiore a tre anni, tuttora presenti nell'attivo patrimoniale della banca centrale.

Questi interventi, uniti all'azione del governo dei tecnici, hanno consentito la stabilizzazione dello spread BTP-Bund sul valore attuale di 250 punti. Un ulteriore margine è ancora possibile sino ai 200 punti di differenza; tale infatti è il valore reale del differenziale tra le economie dell'Italia e della Germania, secondo le indicazioni della Banca d'Italia. Allora possiamo concludere che l'euro ha fatto la sua parte, la classe politica no; l'obbligo di fare i compiti a casa, più volte richiamato dal senatore Monti, discende dalla necessità di impedire che la catastrofe dell'Italia potesse trascinare con sé l'euro e quindi l'unione europea.

Il Progetto: come rinnovare

Il movimento repubblicano, nel corso della sua azione politica più che bicentenaria, ha vissuto più volte il dilemma di come ridefinire la propria "mission", trovando sempre la giusta risposta al quesito di come definirsi, di come trasformarsi, di come caratterizzarsi. La risposta, di volta in volta individuata, si fondava sempre su due capisaldi: la conferma delle proprie idealità, e della propria cultura politica; la necessità di porsi al servizio, e non servirsi, delle istituzioni repubblicane, affinché si affermassero attraverso l'efficacia delle istituzioni i diritti e le libertà dell'uomo; nella piena consapevolezza che non ci potesse essere democrazia compiuta svincolata dall'etica dei doveri. Il nostro prossimo congresso nazionale rappresenta proprio uno di quei momenti, di quei passaggi nei quali bisogna sapere indicare sia la strada, che le condizioni per caratterizzare l'impegno politico; nonché i termini, gli obiettivi e gli strumenti per un'efficace governo dell'Italia. Certo le condizioni attuali di partenza non sono le migliori; ma come soleva dire Giovanni Spadolini se i momenti politici che stiamo attraversando fossero "di ordinaria amministrazione", non ci sarebbe bisogno del partito repubblicano. Pur consci delle difficoltà, da qualcuno addirittura ritenute insormontabili (ma non dai veri repubblicani ), riteniamo che ancora una volta vada profuso tutto l'impegno possibile ed immaginabile per portare a compimento l'opera: come rinnovare il Pri, come governare l'Italia.

I nuovi impegni

Nell'affrontare questa tematica, va riaffermato con forza in via propedeutica che noi non intendiamo abbandonare o peggio espellere dalla nostra prospettiva tutto il costante impegno e la caratterizzazione nell'azione operativa del partito. Anzi ne riaffermiamo e ne rivendichiamo tutta intera la peculiarità delle idealità, della cultura e della tradizione politica. Si tratta, in sostanza, di plasmare una più incisiva e proficua struttura dell'organismo politico attraverso il quale veicolare e prospettare le indicazioni, le proposte della nostra azione politica, che peraltro affondano le radici nel pensiero di Mazzini e di Cattaneo; per riuscire così con più immediatezza a "trasdurre" in concreti indirizzi ed in linee operative convincenti ed attuali la cogente visione della società, della democrazia, dei diritti e dei doveri. Non si tratta perciò di attuare una cesura, ma, secondo il pensiero e l'operato di Arcangelo Ghisleri, di prospettare un "lucido rinnovamento del pensiero repubblicano"; e nella scia di Ugo La Malfa di innovare l'operatività e l'immagine del partito, in sintonia con le nuove esigenze, le nuove visioni , e i nuovi linguaggi della società postindustriale, che nella sua comunicazione egli esplicita e sintetizza nel messaggio "L’altra Sinistra" ; e che noi oggi potremmo indicare con "La Rivoluzione Repubblicana, Liberal-democratica".

Ma dobbiamo anche rivalorizzare ed attualizzare i connotati originali di quel movimento organizzato che nel periodo tra il 1831-1833,partendo dalla Giovine Italia, diede vita ad una struttura operativa di straordinaria modernità per quel periodo, che prefigurava i connotati del moderno partito politico. Non a caso gli aspetti più salienti e caratterizzanti di quella organizzazione politica venivano chiaramente indicati in quattro punti:

- l’adesione doveva avvenire con pagamento di quote associative;

- l'azione politica doveva essere esplicata attraverso l'elaborazione di un programma pubblico;

- la vita associativa doveva svolgersi secondo i principi del confronto, della democrazia interna, della rappresentati vita’;

- la comune convivenza si doveva realizzare sul principio della disciplina di partito.

Ma dobbiamo anche auspicare e sollecitare un'adesione piena e concreta di tutti i partiti nazionali ai principi ispiratori inseriti nella carta costituzionale italiana, con riferimento al ruolo, la funzione, la competenza degli stessi. La regolamentazione formale e giuridica dei partiti è la premessa e la cornice nella quale devono essere collocati poi i rispettivi statuti, e le conseguenti modalità esplicative dell'azione associativa.

L'azione di rinnovamento del Pri, al di là dell'attuazione legislativa dei principi costituzionali, deve ispirarsi completamente a tutte le linee guida prima indicate. In particolare, i quattro punti definiti nel lontano 1831-1833 devono rappresentare compiutamente ed efficacemente i principi ispiratori dell'organizzazione e dell'azione del rinnovato partito repubblicano. Si tratta di renderli attuali, vivi e nitidi attraverso la puntuale formulazione di norme operative e comportamenti che enfatizzino al massimo i nobili principi che sottintendono. Conseguentemente l'adesione al partito deve sì comportare l'impegno imprescindibile a contribuire al finanziamento della vita e dell’attività (e questo sembrerebbe anche ora scontato) con il versamento delle quote annuali; ma ciò non appare esaustivo. Bisogna anche studiare l'opzione di prevedere la figura dell'assemblea dei soci finanziatori, che impegnandosi (in aggiunta alla quota annuale) con un vincolo solido a sostenerne in modo significativo i costi di funzionamento, assumano la figura di "azionisti finanziari" (senza prerogative politiche), che hanno il compito di nominare l'amministratore del partito; di controllare la gestione secondo le modalità da definire; di predisporre, sulla base del programma politico ed operativo formulato dal consiglio nazionale, il budget previsionale di spesa per l'anno sociale; di formulare il parere di congruità e di copertura di spese non previste ed aggiuntive rispetto al budget; di predisporre la relazione da allegare al bilancio consuntivo annuale elaborato dall'amministratore; di revocare, se del caso, l'amministratore in carica. Si creerebbe, così facendo, una maggiore garanzia di trasparenza, e di rigore finanziario ed amministrativo.

L'obbligatorietà poi del programma pubblico comporterebbe la necessità di caratterizzare l'azione del partito non solo (e forse non tanto) sulla figura quasi carismatica del leader, ma essenzialmente sulla chiarezza degli obiettivi, dei contenuti, delle priorità programmatiche ; consentendo una (per noi) radicale trasformazione da partito del leader (a tutti i livelli, non solo quello nazionale) a partito del progetto.

Ciò, per essere coerenti sino in fondo, necessiterebbe di una norma che ponesse dei limiti temporali (assolutamente invalicabili, non derogabili e senza esclusioni) negli incarichi politici ed istituzionali.

Le modalità di svolgimento della vita associativa diventano un punto nodale sia per la funzionalità, che per la garanzia di pacifica coesistenza nel partito, tra componenti che si sono confrontati su progetti alternativi. È per questo che vanno definiti strumenti operativi ed organizzativi, più incisivi rispetto a quelli vigenti, di tutela delle eventuali minoranze; le quali dovrebbero, in qualunque momento e situazione, poter verificare che l'azione operativa (non politica) della maggioranza non sia finalizzata a penalizzare la minoranza. Ciò vale anche per l'utilizzo delle risorse e delle strutture di informazione del partito. In sintesi il tutto si riassume nell'opportunità di prevedere "La carta dei diritti e della tutela della minoranza". Se diventa reale, concreta ed efficace la nuova filosofia dei rapporti interni, allora ne consegue che sarà anche possibile una rigorosa e tempestiva applicazione del principio essenziale della disciplina interna del partito; con tutto ciò che ne consegue. Ma questi aspetti sono al momento sufficientemente definiti ed applicati; ciò non esclude che possano essere ulteriormente aggiornati e meglio formulati nella tempistica, e nelle modalità di applicazione.

La Costituente Repubblicana, Liberal-democratica

Dobbiamo perseguire un profondo e radicale ripensamento dello strumento partito per rendere così più credibile e più efficace l'azione politica, e per aprire la cultura politica repubblicana alle persone; per sollecitare l'impegnativo dei cittadini in politica, e per instaurare un nuovo rapporto fiduciario tra gli elettori italiani ed il Pri.

Abbiamo ritenuto che lo strumento più idoneo per conseguire questo obiettivo potesse essere "La Costituente Repubblicana, Liberal-democratica"; abbiamo, nell'ultimo anno in particolare, profuso un fiume d'inchiostro e di parole, in scritti e dibattiti; ma ancora oggi sorge spontanea la domanda se il corpo del partito ha metabolizzato compiutamente questo impegno. Osservando con una certa attenzione il dibattito che si sviluppa nelle situazioni e nelle sedi più diverse e più spontanee, si evince un livello di coinvolgimento, rispetto all'ipotesi della costituente, molto variegato ed articolato; quasi sempre, comunque, o caratterizzato da un interesse, permeato però dal desiderio di conoscenza più profonda; oppure da un dubbio sottinteso, non riuscendo a focalizzare compiutamente il rapporto, la relazione tra partito e costituente. Certamente questa è una questione non secondaria, anche se può trovare la risposta proprio nel comprendere che la costituente non è il Pri, ma il Pri è parte essenziale della stessa; perché è attraverso la costituente che deve essere attivato il percorso finalizzato alla prospettazione elettorale del progetto di governo dell'Italia. Pertanto è giunto il momento, non più procrastinabile, che si pervenga ad una decisione definita; ed il congresso è la sede per sciogliere dubbi e nodi irrisolti, consentendo così che l'assise repubblicana diventi in effetti l'avvio di questo impegno.

Se è valida, come sembra, l'analisi della crisi del nostro bipolarismo in essere, allora diventa consequenziale la necessità di collegare il progetto politico-programmatico ad una proposta elettorale: questo è il senso della costituente. Diversamente, come dicevamo, tocca al congresso il compito di individuare una ulteriore indicazione elettorale, che abbia però la stessa ampiezza di messaggio, e le stesse potenzialità. Altrimenti non resta che la vecchia strada della ricerca di accoglienza, incomprensibile stante l'attuale bipolarismo, e problematica visti i danni e le macerie prodotte al Pri.

Fare crescere il Paese, superare l'emergenza

L'Italia sta vivendo in quest'ultimi 18 mesi una fase di forte e più accentuato sconforto; ha pienamente la percezione dei pericoli che incombono non solo sulla generazione attuale, ma anche su quelle future. Da ciò la forte preoccupazione delle famiglie , e quindi la continua riduzione dei consumi privati, che nel 2013 potrebbero contrarsi di un ulteriore 1,5%. Il sistema produttivo, parallelamente, sconta direttamente questa significativa flessione dei consumi delle famiglie, e conseguentemente deve ridurre gli investimenti, la cui portata nell'anno in corso potrebbe attestarsi a circa il -2,0%; eppure le aziende più efficienti hanno sostanzialmente concluso un consistente piano di ristrutturazione, e la cosa è evidenziata dal buon andamento delle esportazioni, che da sole però sono del tutto insufficienti a produrre un efficace ripresa complessiva.

E ciò nonostante, ancora nel 2013 il CLUP crescerà di un ulteriore 1,5%. D'altra parte la terapia di risanamento dei conti e della finanza pubblica ha prodotto gli effetti possibili: ha bloccato la pericolosa deriva degli anni 2010 - 2011, ma i risultati complessivi non sono ancora tali da ritenere del tutto compiuto il raggiungimento del pareggio strutturale del bilancio pubblico; e tanto meno la stabilizzazione dei parametri economici e finanziari fissati con l'accordo sul Fiscal- Compact. Manca, infatti, all'appello la crescita del paese, il cui apporto è essenziale, sia nell'ottica della finanza pubblica, che in quella dell'occupazione.

Su questa priorità assoluta per l'Italia, cioè la crescita, il Pri ha concentrato il suo approfondimento politico-programmatico, indicando, nel progetto per un governo repubblicano, liberal-democratico, gli elementi caratteristici di un adeguato ,rigoroso, credibile e sostenibile piano strutturale di rivitalizzazione e rilancio dell'economia del sistema Italia.

Abbiamo indicato gli obiettivi da raggiungere, e gli strumenti da utilizzare. Non pensiamo sia utile, ora qui, ripetere tutte quelle dettagliate indicazioni. E invece essenziale in questa fase di grave crisi acuta porre l'accento sulla necessità di indicare al paese un complesso di interventi, certamente in linea ed in perfetta sintonia col progetto strategico, in grado di imprimere una svolta repentina e consistente al problema dei consumi, e quindi al rilancio dell'offerta. Un intervento straordinario del genere potrebbe produrre l'effetto di imprimere una svolta positiva al sistema produttivo del Nord, e nel contempo di disporre di risorse finanziarie necessarie per impedire il tracollo per eccesso di austerità del Sud. Bisogna in sostanza attivare un pacchetto congiunturale di interventi, caratterizzati da una "filosofia" diversa, anche se non contrapposta rispetto alle linee strategiche di medio lungo periodo; questi ultimi, infatti, devono caratterizzarsi per una più definita e costante integrazione strutturale tra vari fattori, quali compatibilità finanziarie e mercato, rigido rispetto del pareggio di bilancio, incisivo rientro del debito pubblico.

L'intervento congiunturale ipotizzato dovrà certamente svolgersi nella cornice strategica, ma potrà comportare transitorie situazioni di non perfetto allineamento con il patto di stabilità del 2013. La durata temporale di questa finestra dovrebbe essere di circa tre anni; l'ordine di grandezza delle risorse finanziarie complessive da mobilitare dovrebbe attestarsi intorno ai 30 miliardi di euro (circa due punti di PIL), da finalizzare alla riduzione del cuneo fiscale, in favore delle aziende e dei lavoratori dipendenti, nonché per ridurre il peso delle imposte sui pensionati e dipendenti pubblici (cifra complessiva 15 miliardi); ad un piano straordinario di interventi per la tutela del suolo, del patrimonio scolastico, delle risorse idriche e dell'emergenza nel settore dei beni archeologici e culturali (5 miliardi); ad un piano di accelerazione degli interventi infrastrutturali con riferimento tanto agli impianti fissi che non (hardware e software). La copertura finanziaria dovrebbe avvenire attraverso una più accentuata e consistente lotta all'evasione fiscale, per recuperare nel triennio almeno 10 miliardi aggiuntivi; attraverso il blocco della spesa corrente al livello del 31/12/2013, con l'eliminazione conseguente degli incrementi di spesa corrente già previsti dal DEF 2013 per il triennio 2014-2016. La restante parte di risorse finanziarie necessarie dovrebbe incidere sul deficit di bilancio; comportando con ciò effetti negativi, destinati però ad essere riassorbiti per effetto della connessa crescita del Pil e della base occupazionale. Si dovrebbe, in sintesi, ottenere un duplice effetto in conseguenza dell'aumento del valore corrente del Pil: maggiori entrate fiscali a partire già dal secondo anno (da destinare a riduzione del debito), aumento del denominatore impiegato nel calcolo dei coefficienti di Maastricht.

Il piano straordinario di interventi risulterà efficace ed applicabile se tale verrà considerato dai mercati finanziari internazionali, dalla BCE, dall'Unione Europea. I primi due soggetti incidono direttamente ed immediatamente sul livello dei tassi di interesse per il finanziamento della quota di debito sovrano in scadenza, il terzo sulla autorizzazione a sforare i vincoli previsti dal patto di stabilità.

D'altra parte questa è stata la strada utilizzate dalla Germania dopo il 2009; la felice riuscita dell’operazione sta a significare che la credibilità del governo tedesco dell'epoca ha fornito implicitamente ed esplicitamente le opportune garanzie di efficacia e rispetto delle condizioni complessive.

Ritorna quindi il problema dell'affidabilità del sistema politico italiano. Questa volta però non si tratterebbe di fare digerire ricette di rigore finanziario agli italiani (da qui la scelta dei vari governi, sotto forme diverse, delle ampie intese), che al momento potremmo ritenere non incombenti; bensì di far accettare a soggetti molto più attrezzati, più esigenti, e più attenti a cogliere con immediatezza l'evoluzione, o l'involuzione degli eventi dell'Italia ( e di comportarsi conseguentemente) la temporaneità degli sforamenti e la credibilità del piano strategico e la sua applicazione, dopo la parentesi congiunturale. Tutto ciò pone in primis il problema delle potenzialità e delle prospettive del governo in carica. Stante l'attuale situazione di equilibrio politico in stato di perenne fibrillazione, sorge spontaneo il quesito se possa essere l'esecutivo guidato dal premier Letta il garante politico ed istituzionale presso i soggetti che dispongono del potere di consentire o meno la realizzazione degli interventi ipotizzati. E’ difficile dare una risposta, anche se sembrerebbe più indirizzata verso il negativo.

Questo il vero nodo da sciogliere per pensare concretamente al piano di emergenza.

La conclusione

Questo lavoro, limitato e quindi non esaustivo, non può e non vuole avere il significato di un progetto compiuto; compito questo proprio del congresso. Inoltre non è la relazione politica di un segretario nazionale, che tradizionalmente inquadra ed incanala i lavori del congresso, ma vuole essere un contributo al confronto, al dibattito, all’approfondimento delle tematiche essenziali per il rinnovamento del partito e del sistema politico nazionale. Sarebbe quindi utile ed auspicabile che da qui al congresso arrivassero ulteriori contributi e proposte programmatiche ed operative, ad integrazione, o se del caso in contrapposizione a questo lavoro.

Il successo dell'azione repubblicana, l'auspicato consenso elettorale, la riaffermazione di una sua funzione politica nel paese sono tutti obiettivi che richiedono pluralità di idee, confronto franco, anche aspro se necessario, ma rispettoso della diversità di pensiero, senza la quale tutto rischia di perdere nel tempo di incisività, di attualità e quindi di efficacia. L'obiettivo prioritario del congresso non deve essere la ricerca di un leader , certamente necessario nell'attuale contesto politico, bensì il progetto di rinnovamento del partito, il progetto di governo dell'Italia.